Giovedì 25 Aprile 2024

Il prezzo della guerra

Nelle stesse ore in cui riceveva con tutti i salamelecchi del caso il presidente cinese Xi Jinping, Barak Obama poneva il veto alla permanenza di Bashar al Assad a capo del governo siriano. Motivo, è un dittatore. Difficile però sostenere che la Cina sia una democrazia: non c’è opposizione, non ci sono sindacati, la Chiesa cattolica non è libera di professare il proprio culto, i dissidenti finiscono in campi di lavoro secondo antica tradizione. Per “rieducarli”, naturalmente. Gli interessi economici non bastano a spiegare questa doppia morale. Non del tutto, almeno. A far la differenza è anche il fatto che le violenze di Assad sui siriani sono state minuziosamente raccontate dalle televisioni occidentali, quelle inflitte ai cinesi dal regime che li sovrasta, invece, no. C’è da scommettere che se, per caso, nei giorni scorsi i telegiornali avessero raccontato di una nuova piazza Tienanmen, Obama avrebbe adottato un registro diverso e la visita d’affari di Xi Jimping non avrebbe avuto luogo. Naturalmente, non è solo Obama ad applicare i canoni ipocriti della doppia morale alla politica estera. Così fan tutti, ormai. Fan tutti così perché decenni di moralismo politicamente corretto hanno ormai privato la politica della possibilità di utilizzare quelle categorie che da sempre la caratterizzano.

Cioè l’interesse nazionale e l’uso legittimo della forza. Perciò lascia freddini l’entusiasmo con cui ieri Renzi ha salutato la nascita della "più grande coalizione contro il terrorismo che il mondo abbia mai visto". La coalizione ci sarà pure, ma per far cosa? Fare “la guerra” sarebbe sconveniente. All’inizio dell’Ottocento, il prussiano von Clausewitz scrisse che "la guerra è uno strumento della politica, un modo per continuare le relazioni politiche... con altri mezzi". Allora l’osservazione fu giudicata acuta, e in fondo naturale. Lo stesso concetto oggi viene ritenuto scandaloso. Il problema ha radici antiche. Nasce in seguito alla spaventosa carneficina della Prima guerra mondiale. A quello choc l’Occidente reagì mettendo fuori legge la guerra con il trattato di Briand-Kellog e dando vita, sotto la spinta idealista dell’allora presidente statunitense Woodrow Wilson, alla Società delle nazioni, che poi divenne l’inutile Onu. Da allora le democrazie occidentali hanno cominciato ad arretrare rispetto alla possibilità, o più propriamente alla necessità, di usare la forza quando serve. Oggi, ad averci dichiarato guerra è l’Isis. Ma, parole a parte, l’Occidente continua a cullarsi nella propria, autolesionistica, inerzia. Il motivo è semplice: i governi temono che, dopo decenni di buonismo e di retorica pacifista, le opinioni pubbliche non siano più in grado di sopportare i costi di una guerra. Al primo morto i comitati delle mamme dei soldati insorgerebbero, la Chiesa farebbe da coro, l’impopolarità toccherebbe chi ha disposto l’intervento. Quella retorica dei diritti umani che in un’intervista al ‘Foglio’ Giuliano Amato ha attribuito criticamente alla sinistra, tocca in realtà tutti. Anche la destra. Ed è per questo che mentre noi occidentali offriamo la gola a chi intende tagliarla e assistiamo inermi allo tsunami migratorio che ci sta investendo, Vladimir Putin appare un gigante della politica. Sulla Siria ha avuto ragione sin dall’inizio e infatti Obama è oggi costretto a rincorrerlo. Ha avuto ragione, Putin, perché i russi non sono stati permeati dal politicamente corretto, il che consente a chi li guida di usare il realismo come unica bussola del proprio governo.