Venerdì 19 Aprile 2024

Sfida finale al premier

VOGLIAMO chiamare le cose con il loro nome? La minoranza del Pd non vuole modificare questa o quella legge. Vuole cacciare Renzi dalla segreteria del partito e da palazzo Chigi. Lo considera un intruso, un incidente di percorso nel lungo cammino della sinistra italiana. Prima se ne va, meglio è. È questa la chiave di lettura dell’affondo di Massimo D’Alema contro il presidente del Consiglio in una sede qualificata come la Festa nazionale dell’Unità. Pur non facendo parte del Parlamento perché rottamato da Renzi (sembrava impossibile, ma è successo), D’Alema resta il vero leader morale dell’opposizione interna al segretario-presidente. Renzi si era fatto legittimare dall’incredibile 41 per cento delle elezioni europee dell’anno scorso. E onestamente non basta il mediocre risultato delle regionali e delle comunali di quest’anno a togliergli l’investitura. Il problema è un altro. La politica di Renzi sta frantumando alcuni tabù sui quali – prima per convinzione, poi per timore – la nomenklatura storica del partito non ha mai messo mano. Come ministro del governo Prodi, Bersani fece una salutare ‘lenzuolata’ di liberalizzazioni (poi frenata dalle lobby), ma toccò gli interessi delle categorie che in genere non votavano Pd.

D’ALEMA da presidente del Consiglio andò oltre provando a superare alcuni steccati ideologici della sinistra. Gli andò bene con i bombardamenti in Kosovo, gli andò malissimo su tentativi di riforma del sistema del lavoro che furono bloccati sul nascere dalla Cgil di Cofferati. Renzi ha fatto quel che gli altri Paesi avevano fatto da un pezzo: ha semplificato i vincoli sull’accesso al lavoro, ridimensionando brutalmente il ruolo della Camusso e in genere del sindacato. Vuole andare oltre potenziando i contratti aziendali e incentivando il merito: altro fumo negli occhi. Eppure è molto meno di quanto ha fatto il premier spagnolo Mariano Rajoy che ha ridotto gli stipendi e varato una riforma ultraconfindustriale del mercato del lavoro, non abbassando la disoccupazione (22 per cento, dieci punti più di noi), ma rilanciando la crescita e perfino i consumi interni. Renzi ha pagato cara col suo elettorato la riforma della scuola, eppure soltanto strutture efficienti, ben dirette e intelligentemente competitive possono moltiplicare le nostre eccellenze latenti. Altro fumo negli occhi della sinistra (politica e intellettuale) il silenzio assenso delle amministrazioni che se non sarà anestetizzato dai vincoli dell’autotutela (un modo per gettare dalla finestra la riforma entrata dalla porta) potrà davvero trasformare l’Italia. Infine, l’abolizione dell’Imu e della Tasi sulla prima casa. Un tentativo di dare all’82 per cento di italiani proprietari di casa qualche centinaio di euro da spendere, ma troppo ‘berlusconiana’ per non essere indigesta.

LA RESA dei conti è al congresso Pd del 2017. Prima i pugili della minoranza interna hanno interesse a lavorare Renzi ai fianchi, a indebolirlo, a delegittimarlo, a riempirlo di lividi senza arrivare al knock out. O arrivandoci solo nella certezza che Mattarella sostituirebbe il governo senza sciogliere le Camere. Fantascienza, per ora. Questo non toglie che Renzi debba fare la sua corsa contro il tempo. Il Jobs Act ha trasformato i contratti a scadenza in contratti a tempo indeterminato. Ma il numero degli occupati non cresce e i consumi interni sono ancora troppo lenti. La sua scommessa è di dimostrare con i fatti che la sua ricetta è giusta. In quel caso, se sarà il gatto bianco ad acchiappare il topo invece del gatto rosso, anche i suoi nemici interni dovranno farsene una ragione.