Mercoledì 24 Aprile 2024

La donna e il seno, gli screening salvavita

Linfonodo sentinella e noduli mammari. Intervista di Renata Ortolani al presidente della Fondazione Veronesi

Paolo Veronesi con Lucrezia Lante Della Rovere

Paolo Veronesi con Lucrezia Lante Della Rovere

Bologna, 11 agosto 2014 — Un maggior consumo di carne rossa, in età adulta e prima della menopausa, potrebbe aumentare fino al 22% il rischio di cancro al seno, ma se sostituiamo con carni bianche (pollame), legumi, noci e pesce il rischio si riduce. Lo sostengono i ricercatori della Harvard school of public health, di Boston, con una analisi svolta su un campione di 88.000 donne in premenopausa, pubblicata sul British medical journal. Una notizia tra le tante che hanno rilanciato il dibattito sulla opportunità di fare diagnosi di patologie mammarie, e con quali prospettive. Ma ha ancora senso per la donna il classico programma di screening scandito da mammografie e dai conseguenti accertamenti (biopsie, altre metodiche radiologiche) che in tutto il mondo da quarant’ anni viene messo in atto per scoprire precocemente e monitorare la salute della mammella? Sarebbe forse opportuno, per scongiurare le conseguenze legate al moltiplicarsi delle diagnosi, che le azioni preventive diventassero un percorso mirato, non generalizzato ma basato sulle caratteristiche e sulla storia genetica e clinica di ogni donna? 

La domanda, scomodissima ma che circola nel mondo scientifico già da anni, è diventata dibattito alla luce del sole, su scala internazionale. Ha rilanciato gli interrogativi il saggio pubblicato online sul New England Journal of Medicine firmato da due dei sette membri dello Swiss medical board, gruppo scientifico indipendente che nel 2013 ha ricevuto da importanti istituzioni elvetiche l’incarico di rivedere le evidenze sul tema, di valutare insomma «se sia ovvio il fatto che i benefici della mammografia superino un eventuale prezzo da pagare». Secondo Biller- Adorno, eticista medico dell’Università di Zurigo e l’epidemiologo dell’Ateneo di Berna, Peter Juni, «non è del tutto ovvio» e con loro si schiera Lydia Pace (Brigham and Women’s Hospital di Boston) che propone non tanto il congelamento dello screening, quanto un programma per cui «le donne sopra i 40 anni debbano discutere il rischio mammario, con i pro e contro del percorso classico in uso, ognuna con il proprio medico». Sparano a zero invece sul gruppo di scienziati svizzeri che hanno valutato costi e benefici in termini di biopsie non necessarie ed esposizione delle donne monitorate a conseguenze connesse (a loro parere) alle tecnologie di indagine, i radiologi di Harvard sia quelli dell’American college of radiology. Ma anche i membri della Society of breast imaging che evocano «conseguenze ipotizzabili negli anni se il governo svizzero abolisse lo screening mammografico generalizzato». 

Coraggioso e realistico il parere di uno dei maggiori scienziati italiani attivi nel settore, il professor Paolo Veronesi, chirurgo presso l’Università degli Studi di Milano, direttore dell’unità di Chirurgia senologica integrata dell’Istituto europeo di oncologia e presidente della Fondazione Umberto Veronesi, incentrata sulla formazione, la divulgazione e la ricerca scientifica. Lo specialista ha risposto alle nostre domande alla serata di gala, charity dinner, promossa dalla delegazione di Bologna della Fondazione a Palazzo Albergati. 

«Gli screening attualmente adottati in tutto il mondo sono stati ideati circa 40 anni fa — afferma Paolo Veronesi — quindi hanno effettivamente limiti enormi e sono basati principalmente sulla mammografia perché 40 anni fa c’era solo quella. Lo screening di massa così come viene fatto oggi non è più adeguato: esami a volte inutili, eseguiti da un tecnico in assenza del medico radiologo, con biopsie a cascata e diversi altri ‘inconvenienti’ tra i quali quello di lasciare scoperte rispetto all’azione preventiva le donne giovani, una popolazione che invece registra una incidenza crescente del tumore mammario». Che alternativa ha in mente, Veronesi lo dice senza problemi: «Io penso a un programma che parta dal profilo di rischio calcolato donna per donna, basato sulla sua storia familiare e sulle caratteristiche genetiche; poi vedrei di rendere più consistente il ruolo del medico senologo, che oggi in Italia non viene formato da alcuna Università». 

«E’ insomma obsoleto, anche secondo me, il metodo in uso per monitorare la popolazione a rischio — ha precisato Veronesi — obsoleto e non sufficiente. Certo innovare tutto il sistema di prevenzione sarebbe costoso ma si potrebbe pensare all’eliminazione del ticket sugli esami legati ai programmi di prevenzione, e anticipare l’età delle donne che vi si sottopongono». 

Infine gli stili di vita: «Prevenzione delle patologie mammarie oggi significa, per la Fondazione che presiedo-conclude il professor Veronesi - maggiore attenzione alla alimentazione, alla obesità, al fumo e all’uso di alcol da parte delle donne e promozione, fra quelle di ogni etá, di attivitá fisica adeguata alle differenti situazioni personali». Poi, la buona e concreta notizia: «Se cambiare le modalità dello screening è per ora un traguardo non condiviso da tutti gli specialisti e difficile da raggiungere - ricorda il chirurgo- va detto che entro il 2015 la normativa europea imporrà anche in Italia la creazione di Centri dedicati alla cura delle malattie mammarie, con parametri e specialisti ad hoc. Un passo avanti, importante, che aprirà la strada verso un approccio più moderno e meno rischioso al tema della prevenzione».

Renata Ortolani