Banca Etruria, il pm consulente di Renzi. L’opposizione: intervenga il Csm

Da Manzione a Quattrocchi, tutti i magistrati legati a Palazzo Chigi

Matteo Renzi durante la trasmissione Rai 'Porta a Porta' (Ansa)

Matteo Renzi durante la trasmissione Rai 'Porta a Porta' (Ansa)

FIRENZE, 17 dicembre 2015 - LEGNA che brucia nei ‘Boschi’ di Banca Etruria. Imbarazzi e conflitti di interessi. Dietro il crac dell’istituto un puzzle di consulenti, amici, parenti. Altro che merito. Altro che indipendenza.  Se il premier predica bene, dicendo che i giudici non devono mettere becco in politica, scotta la scoperta che il procuratore capo aretino, Roberto Rossi, proprio lui, che tira le fila dell’inchiesta sul crac di Banca Etruria, è un consulente di Palazzo Chigi. «È un incarico a titolo gratuito», si difende Rossi che, dal 2013, è consulente del Dipartimento affari giuridici e legislativi. E non è la prima volta che Renzi mette i magistrati in politica. Legami, trame, intrecci. Anche lasciati in eredità. Perché oggi a Firenze, già da un anno e mezzo, è consigliere speciale per la sicurezza l’ex procuratore capo Giuseppe Quattrocchi, entrato a Palazzo Vecchio, con ancora l’odore addosso dei fascicoli intrisi d’inchiostro, fresco di pensionamento. L’uscita dal portone del palazzo di giustizia e la contestuale entrata in Palazzo Vecchio suscitò sospetti, borbottii e polemiche. 

PRIMA DI LUI, un precedente. Perché fu sempre Renzi, giovanissimo sindaco, a chiamare chiamare come consulente per la sicurezza l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Luigi Vigna che, dopo un anno e mezzo, se ne andò sbattendo la porta, con una lettera durissima d’accusa: secondo lui Renzi cavalcava «la sindacatura di Firenze quale passaggio alla leadership politica». Cosa poi effettivamente avvenuta. In questo clima avvelenato c’è da calibrare il passo. Renzi cerca di liberarsi dall’abbraccio forzato coi custodi della morale. Un abbraccio che però è lui stesso a cercare spesso.  Appena arriva a Palazzo Chigi, il premier di Rignano sull’Arno nomina Antonella Manzione a capo del Dagl, il Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi fin lì guidato da Carlo Deodato. Proprio con il Dagl collabora il procuratore capo di Arezzo. La Manzione è un petalo pregiato del giglio magico. Ma i Manzione cari al cuore di Renzi sono due. Lei, cui Renzi sindaco affida la guida della polizia municipale di Firenze e poi la direzione generale di Palazzo Vecchio. E il fratello, Domenico, anche lui magistrato, sottosegretario di Stato. Entrambi molto affiatati, al punto di condividere, anche se non in contemporanea, spostamenti di città in città. Dalla Toscana finiscono per riunirsi a Roma. Strani incroci familiari di destini diversi.    ORA c’è Rossi. Roberto Rossi, beccato proprio alla vigilia del primo passaggio cruciale per la procura di Arezzo che indaga sul dissesto finanziario e sul presunto conflitto d’interessi degli ex vertici della banca con il governo e, in particolare, con la ministra Boschi. «È un incarico meramente tecnico e non politico che ho da quando il governo era retto da Enrico Letta», spiega Rossi, aggiungendo di aver onorato «l’incarico, che si concluderà a fine di quest’anno, a titolo gratuito». Qual è il problema? L’opportunità. È legittimo che il procuratore Rossi resti legato a Palazzo Chigi mentre alla sua firma c’è la conclusione indagini per il fascicolo che risale al marzo 2014, in cui si ipotizza il reato di ostacolo alla vigilanza da parte degli ex vertici di Banca Etruria, con richiesta di rinvio a giudizio da formulare al gip, per gli ex vertici Fornasari, Bronchi e Canestri? Se lo chiedono anche FI e Lega. Il vicepresidente del Carroccio, Roberto Calderoli, parla di «un ‘vulnus’ incredibile e inaccettabile» e preme affinché «si faccia chiarezza» sul caso. Sulla stessa linea il consigliere laico forzista nel Csm, Pierantonio Zanettin, che chiede al Comitato di presidenza di aprire una pratica «per valutare se sussistano profili di incompatibilità, di appannamento dell’immagine, di imparzialità»