Mercoledì 24 Aprile 2024

Poliziotto antidroga sbattuto in cella. "Rovinato da un pentito". E poi assolto

Calvario infinito. "Devo ancora avere gli stipendi di cinque anni"

Polizia antidroga (Dire)

Polizia antidroga (Dire)

Roma, 23 gennaio 2016 - «SONO un poliziotto, prima di tutto. Faccio il lavoro che ho sempre sognato di fare e che sento mio». Mauro Di Furia, vicesovrintendente della Polizia e rappresentante sindacale del Sap è gonfio di orgoglio: «Sono un poliziotto, un poliziotto onesto». C’è soddisfazione nelle sue parole venate, però, da un filo di amarezza. Perché lui non è soltanto un poliziotto, è un uomo che si è portato sulle spalle l’infamia di un’accusa pesantissima: essere parte di un’associazione criminale dedita al traffico di droga. Proprio quel traffico che aveva a lungo combattuto da operativo nella Mobile di Roma.  Un collaboratore di giustizia l’aveva accusato – insieme con altri colleghi e un dirigente specchiato – e lui era finito in carcere per un anno, in isolamento. Era il 2005. Poi ha passato otto mesi ai domiciliari per arrivare a sentir pronunciare, a dicembre del 2014, la sentenza di assoluzione con formula piena che l’ha rimesso in piedi. In tutti i sensi. «Quella è stata la fine del mio calvario. Assolto, insieme con i miei colleghi, perché il fatto non sussiste. Una sentenza che poi è passata in giudicato, definitiva».

È stata la fine dal punto di vista dell’onta, ma nella vita pratica?

«La mia vita è devastata. Ho passato cinque anni sospeso dal servizio con lo stipendio ridotto all’assegno alimentare. Con le spese per difendermi, l’avvocato e tutto il resto. Ho dovuto vendere la casa che avevo comperato con la mia famiglia. Non ho più un soldo».

Adesso che le accuse sono state cancellate ha ricominciato a lavorare?

«Ho ricominciato da tempo e lavoro a Viterbo dove ho incontrato persone meravigliose, il questore Suraci in testa».

Tutto a posto?

«Non direi. Ho passato cinque anni senza stipendio. Ora che la mia innocenza è stata provata avrei voluto che il Dipartimento mi usasse un qualche riguardo. Invece...».

Invece non le riconosce lo stipendio pieno?

«No, ha già riconosciuto che mi deve essere restituito lo stipendio dei cinque anni, la ricostruzione della carriera, eccetera. Sono i tempi che non sono accettabili. Dopo quello che ho passato vorrei tornare a essere sereno».

Anche economicamente...

«Già. E comunque aspetto che mi siano riconosciuti gli scatti, la carriera. Farmi tornare a essere quello che sarei stato normalmente rappresenta anche un modo per far capire ai miei figli quello che ho sempre detto: vostro padre è un uomo onesto e perbene e non ha mai fatto nulla di male». 

Il riconoscimento di questi anni l’aiuta a dimostrarlo...

«Vorrei che fosse così, vorrei che quel che mi è dovuto ed è stato già riconosciuto mi venisse dato. Senza dover aspettare, chiedere».

È un suo diritto.

«Appunto. E ne ho passate talmente tante che avrei apprezzato una qualche accortezza nei miei confronti». 

Il collaboratore di giustizia che l’accusava? Non dovrebbe essere perseguito?

«Dovrebbe essere perseguito d’ufficio ma, francamente, non mi interessa neanche più. Non voglio più vederlo, non voglio i suoi soldi. Io desidero soltanto serenità, tranquillità. Desidero avere quanto mi spetta per questo lungo periodo e vivere in pace, fare il mio lavoro».

Che l’appassiona ancora?

«Nonostante tutto ho ancora voglia di lavorare. Chiedo solo che mi venga ridata la dignità che mi è stata tolta ingiustamente. Dopo questo tempo dovevo essere sovrintendente capo ma sono ancora vice».

È passato più di un anno dalla sentenza.

«I tempi, mi dicono, sono questi. Però avrei voluto più attenzione nei miei riguardi e nei riguardi degli altri colleghi che hanno vissuto lo stesso dramma».

Non è un caso qualsiasi...

«Direi. È un marchio che mi porterò a vita, almeno nella mente degli stupidi che ci sono ovunque e che sempre tali rimangono».

Che cosa le è pesato di più?

«Aver mentito ai miei figli, averlo dovuto fare anche se ho sempre insegnato loro a dire la verità, ad essere corretti. Ma quando ero in carcere ho dovuto mentire ai miei figli. Questa è una cosa che proprio non riesco a metabolizzare».