Referendum e non solo: i tentativi (a volte riusciti) di riformare la Costituzione

Per 36 volte si è cercato di modificare la Suprema Carta: ecco i casi più rilevanti e quelli addirittura eclatanti

D'Alema e Berlusconi nel marzo 1996 (Ansa)

D'Alema e Berlusconi nel marzo 1996 (Ansa)

Roma, 2 dicembre 2016 - Che la revisione della Costituzione sia argomento assai delicato è testimoniato dai numerosi tentativi (36) di revisione della Suprema Carta. Ma non solo. C’è un problema di comprensione da parte dei cittadini. E non certo perché gli italiani siano stupidi, ma perché la tecnicalità è protagonista nei testi di revisione. Molto spesso, infatti, l’ingegneria costituzionale prevale su quello che dovrebbe essere il dato politico. Vale a dire che, se e quando si riforma la Costituzione, si cambiano le regole del gioco, quelle regole che delimitano il recinto entro cui si svolge la vita di tutti noi, i suoi doveri e i suoi diritti.

Come annota il professor Claudio De Flores, docente nell’ateneo di Napoli, «il potere di revisione consente solo puntuali e circoscritti interventi sul testo costituzionale. E non vi è dubbio che questo sia stato il significato e la portata delle numerose revisioni della Costituzione intervenute nella prima fase della storia costituzionale repubblicana (1948-1999)». Il professore poi punta (giustamente) l’attenzione su come «in quegli anni si è proceduto all’approvazione di ben venticinque leggi costituzionali e di revisione costituzionale». Non poco insomma. Fare l’elenco potrebbe apparire noioso e pedante, ma serve giocoforza a capire una parte importante della storia d’Italia del dopoguerra: le modalità di elezione di Camera e Senato e la durata della legislatura (1963); il numero delle Regioni (1963); la composizione della Corte (1967); la responsabilità dei ministri (1989); il potere di scioglimento del capo dello Stato (1991); le modalità di concessione di amnistia e indulto (1992); l’istituto dell’immunità parlamentare (1993); l’autonomia statutaria delle Regioni (1999). Un elenco che ben rende l’idea come la Costituzione sia stata tutt’altro che aliena da cambiamenti anche significativi.

QUANDO SI VOTA

Ma una disanima, seppur rapida, della storia dei cambiamenti in attesa di questo ‘fatidico’ 4 dicembre, non può prescindere dalla descrizione dei tentativi più eclatanti di riforma, quei tentativi che – ma qui il dibattito tra gli studiosi è apertissimo anche con forti asprezze polemiche – hanno fatto da ‘anticipo’ al progetto istituzionale renziano. 

Il primo tentativo di rilievo risale all’anno 1983 quando venne istituita la commissione Bozzi, dal nome di Aldo Bozzi, antico gentiluomo di scuola liberale. La Bozzi non porterà a nulla di concreto, ma fu un seme molto importante gettato nel terreno politico-istituzionale che avrebbe fornito moltissimi spunti di riflessione per il futuro. In essa, infatti, si prevedeva la riduzione del numero dei parlamentari, un ‘mantra’ che attanaglia il Paese da decenni.​

Altro esempio illuminante si ha nel 1993. Il contesto storico-politico è cambiato completamente. Non sembrano passati dieci anni, ma un secolo. Il Paese è allo sfascio. Le manette, a partire dal terribile 1992, sono scattate ai polsi di tantissimi politici e imprenditori. Il pool di Mani Pulite e la magistratura in generale dettano legge nel verso senso della parola. E’ in pieno svolgimento la distruzione di un sistema dei partiti che non aveva saputo autoriformarsi. Lo spazio è occupato da formazioni come la Lega Nord che propugna, almeno a parole, il federalismo e l’‘indipendenza’ di un’improbabile ‘Padania’. Nasce la commissione De Mita, successivamente commissione De Mita-Iotti. Il nome nasce da Ciriaco De Mita, leader della Democrazia cristiana, e Nilde Iotti, ex presidente della Camera ed esponente di lunghissimo corso del Partito comunista italiano. Obiettivo della commissione la riforma della seconda parte della Costituzione. Essa poteva occuparsi di tutto, fuorché dei decisivi articoli 138 e 139 della Costituzione. Articoli fondamentali perché attinenti alla revisione costituzionale e alla forma repubblicana che, detta il 139, «non può essere oggetto di revisione costituzionale». Si prevedeva una cambio nella forma di Stato con forme – e questo è l’elemento che rivela la sempre maggior forza delle pulsioni leghiste nel Nord del Paese – se non federali in senso stretto, quantomeno attente a una maggiore autonomia regionale. Senza entrare in dettagli troppo tecnici, si prevedeva che le competenze statuali, quelle su cui poteva decidere, venivano scritte nella Carta. Il resto era tutto destinato alle Regioni che avrebbero così avuto un maggior potere. Modifiche erano anche previste per la forma di governo. Il presidente della Repubblica sarebbe stato eletto dal Parlamento in seduta comune. Il che avrebbe permesso al premier di avere molti più poteri. Inoltre era prevista la sfiducia costruttiva sul modello tedesco per scacciare la possibilità di quelle che una volta venivano chiamate le crisi al buio. Per capirsi, era possibile sfiduciare il governo se e solo se c’era un candidato alternativo in grado di prendere le redini dell’esecutivo.

Governo

Altro anno importante è il 1994. Alle politiche è ‘sceso in campo’ Silvio Berlusconi che ha sbaragliato la sinistra post-comunista, convinta, dopo la fine del Psi e l’esilio di Bettino Craxi, di poter finalmente entrare a Palazzo Chigi. Nasce il comitato Speroni, dal nome dell’esponente leghista Francesco Speroni, ministro nel governo di centrodestra. Anche in questo caso si interveniva sulla forma di governo: elezione diretta del presidente del Consiglio oppure l’elezione popolare del Capo dello Stato (in sostanza il modello della Quinta Repubblica francese) che avrebbe a sua volta nominato il premier. Altro elemento che poi diverrà uno dei temi discussi sino alla noia è il cambiamento del Senato: esso sarebbe mutato, diventato il Senato delle autonomie con membri eletti tra consiglieri regionali, provinciali e sindaci.. In gioco entrò anche l’articolo 138. Resta il fatto che nulla di tutte le varie proposte fu realizzato.

Ben diverso, invece, il lavoro della Bicamerale guidata da Massimo D’Alema. Nonostante le polemiche ferocissime, la Bicamerale fu il tentativo più importante e più generoso nella storia dell’Italia repubblicana di cambiare le regole del gioco condividendo tutti insieme, in una logica bipolare, il funzionamento del sistema istituzionale. Erano previste modifiche alla forma di Stato, di governo, elezione diretta del presidente della Repubblica, nuovi articoli nella Costituzione concernenti i rapporti e molto altro ancora. Il tentativo non andò in porto. Si parlò di sconfitta di D’Alema. Ma, in realtà, non fu una perdita dello statista postcomunista, ma dell’Italia intera. Il progetto, in forma ridotta, fu approvato nel 2001, con il referendum sulla modifica del Titolo V (referendum consultivo e che quindi non aveva bisogno di una maggioranza qualificata).

Nel 2006 è Berlusconi a proporre una riforma presidenziale e federale. Il Senato si sarebbe trasformato in federale con 252 senatori eletti insieme al consiglio regionale. I poteri dell’esecutivo ne sarebbero usciti più rafforzati. Approvato a maggioranza dal Parlamento, fu sonoramente bocciato dal referendum costituzionale del 2006.

Molti altri tentativi si sono avuti sino al 2016. Dalla commissione Violante (dal nome dell’esponente Pci/Pds/Ds Luciano Violante) con elezione indiretta del Senato da parte dei consigli regionali, alla proposta Letta. Il tentativo più significativo è quello di Giorgio Napolitano: commissione di saggi con proposta che avrebbe poi dovuto costruire una proposta in seguito votata da un’assemblea costituente. Anche in questo caso nulla andò in porto.