Mercoledì 24 Aprile 2024

Referendum costituzionale, la strategia di Renzi se vince il No

"Governo a un tecnico, Pd a me". La data del referendum non si tocca, qualunque sia la scelta dei giudici

Matteo Renzi in visita alla Colnago, vicino Milano (ImagoEc)

Matteo Renzi in visita alla Colnago, vicino Milano (ImagoEc)

Roma, 4 novembre 2016 - Renzi cambia verso: alla sconfitta. Se al referendum costituzionale vince il «No» rischia di restare dove è. Quelli che non vedono l’ora di sbarazzarsene, come Bersani, in quel caso lo inchioderebbero volentieri a Palazzo Chigi: il massimo della pena per lui, par di capire, sarebbe scontare un altro anno, dopo l’approvazione della manovra di bilancio, indebolito su quella poltrona. Un’anatra zoppa in attesa di subire il colpo finale nelle elezioni politiche del 2018. Una prospettiva che lui, ufficialmente, vede come il fumo negli occhi, tanto che va dicendo in giro che non ci pensa proprio. Piuttosto il suo sogno sarebbe quello di mettere al governo una figura tecnica come Padoan (senza escludere un «nemico» come il presidente del Senato Grasso piuttosto che l’amico Delrio) tenendosi la leadership del partito in modo da poter trattare il governo come quelli che ai tempi della Dc venivano considerati i governi amici. Da prendere cioè a pallonate, fingendo che fossero di altri partiti, in modo da recuperare un ruolo di semi opposizione. E giocarsi la partita per la segreteria Pd: a meno che D’Alema non si inventi un’operazione delle sue, facendo convergere la minoranza su un nome forte (Franceschini? Orlando?) Matteo è senza rivali.

VERO È che mesi fa Renzi non prendeva nemmeno in considerazione l’ipotesi di perdere, mentre adesso è costretto, volente o nolente, a metterla sul tavolo e decidere il da farsi. Non solo i sondaggi continuano a dare i No in vantaggio ma per i bookmaker questo risultato guadagna terreno, tanto che la quota scende a 1,57. Niente dunque impedisce di pensare – come sussurra con insistenza qualcuno nella maggioranza – che si tratti di una strategia. Quella cioè di fingere di aborrire una soluzione per poter poi girare la frittata, in modo da trattare – una volta tornato in sella – da una posizione di forza. Sapendo che gli oppositori interni hanno già detto di non aver niente in contrario ad una sua permanenza a Palazzo Chigi. E la stessa aria si respira nel centrodestra, dove avrebbero il problema di costruire un governo alternativo a quello attuale e nessuno si vuole impegnare nè a destra nè tra i grillini.

Della serie: mi volete su quella poltrona? Bene, io resto e vi porto alle urne io. Una soluzione simile – per certi versi – a quella che portò tre anni fa alla rielezione di Napolitano al Quirinale. Restare alla guida dell’esecutivo è importante per tante, tantissime ragioni, che vanno dal rinnovo delle aziende al controllo dei servizi segreti alla possibilità di dire l’ultima parola sulla legge elettorale. Già: il premier continua ad essere totalmente avverso all’idea di un ritorno al proporzionale. Passato il tornado referendario, l’unica cosa che resta in piedi è il governo: caduto da cavallo, Renzi potrebbe entrare in una terra – il Pd – che rischia di non controllare più. Difficile dire oggi se reggerà l’attuale maggioranza nel partito. Su cui lui comunque punta tutte le sue fiches...

È chiaro che si tratti di disegni ancora ipotetici, confusi anche perché il premier è convinto di vincere. Nessuno tra i suoi si sente di escludere che, qualora perdesse, non giocherebbe la carta delle elezioni, Mattarella permettendo. L’unica certezza a Palazzo Chigi in qualsiasi scenario è che la cosa peggiore per Renzi sarebbe stata quella cui mirava Alfano: il rinvio. Che avrebbe reso la consultazione un’ordalia definitiva e senza nessuna rete di protezione per lui che, per quanto ammaccato da una sconfitta, avrebbe un po’ di tempo per digerirla. Di qui l’irritazione di fronte alla proposta del ministro dell’Interno. E il sollievo con cui ha accolto la scelta del Tribunale di Milano di rimandare di 10 giorni la decisione sul ricorso del costituzionalista Onida che, di fatto, chiude la porta ad uno slittamento. «La data – ripete il premier – non si tocca».