Giovedì 18 Aprile 2024

Pd, Renzi in crisi perde truppe e ufficiali. Il corpaccione dem ora vacilla

Governatori e sindaci freddi. E c’è chi cerca riparo in Mdp

Dario Franceschini e Matteo Renzi (ImagoE)

Dario Franceschini e Matteo Renzi (ImagoE)

Roma, 29 giugno 2017 - Cosa succede nel Pd? Gli attacchi di quasi tutti i padri fondatori dell’Ulivo e del Pd (Prodi, Veltroni) e dei big (Franceschini, Orlando) alla leadership di Renzi sono il segnale di movimenti profondi. Mirano a impedire che sia Renzi (per Statuto segretario e candidato premier) il nome ‘naturale’ per la carica di presidente del Consiglio. Ma è possibile che possa partire, dentro il Pd, uno ‘sganciamento’ di massa dal leader fino a provocarne la caduta, magari in inverno? La scusa è pronta – per unire il centrosinistra servono nomi e volti più ecumenici e unitari (Pisapia, per dire) – e il metodo pure: chiedere, se non obbligare, Renzi a nuove primarie – anche se quelle di partito le ha vinte con due milioni di voti – stavolta di coalizione. Come dice Franceschini, il principale ‘indiziato’ dello sganciamento. Al ministro Lotti che ripete come Renzi «sia stato scelto da due milioni di persone, fine della discussione», il ministro dei Beni culturali replica: «La discussione (interna, ndr) è appena iniziata».   Eppure Renzi controlla in modo ferreo i due organi principali che determinano le scelte e gli assetti interni del Pd, Assemblea nazionale e Direzione. Dentro l’Assemblea nazionale (che può anche sfiduciarlo) i numeri consegnano a Renzi una maggioranza blindata. Su mille componenti, 700 delegati sono stati eletti nella sua mozione congressuale contro i 212 di Orlando e gli 88 di Emiliano. E, all’interno della maggioranza che ha sostenuto Renzi, 420/430 sono renziani puri, 85/95 franceschiniani, 60/62 dell’area Martina e 55 di Orfini. Anche in Direzione nazionale i numeri sorridono al segretario: su 120 membri eletti, 84 sono quelli di maggioranza, 24 gli orlandiani, 12 gli ‘emiliani’. Anche se i venti franceschiniani si schierassero contro Renzi insieme alle minoranze, i 64 renziani ortodossi avrebbero la meglio. Insomma, negli organi che gestiscono il partito, Renzi non rischia nulla. Metterlo in minoranza, a meno di rivolgimenti oggi impensabili, non è possibile.   Diversa la questione se si guarda ai territori, alle federazioni regionali e soprattutto agli amministratori locali. Qui il quadro è magmatico, in perenne evoluzione e a rischio per la leadership renziana che perde colpi quasi ovunque. Prendiamo i governatori. Quello del Lazio, Nicola Zingaretti, picchia come un fabbro: «Il Pd è isolato, fragile e non sa unire». Renzi gli ha offerto un seggio al Senato, ma Zingaretti appoggia Orlando e la sua «lobby» pro-Pisapia. Il governatore dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini (ex bersaniano, poi renziano) si è fatto ipercritico: «Alle amministrative abbiamo preso una sberla per troppa autosufficienza e arroganza. Ora voglio dare una mano». Una presenza ingombrante. Come quella di De Luca (Campania) che pensa solo a sé. I governatori dell’Abruzzo (D’Alfonso) e della Calabria (Oliviero) non sono renziani e lo danno a vedere. Il governatore pugliese, Emiliano, si è battuto contro Renzi al congresso, e tiene stretta la Puglia. 

Dove il Pd non governa è diventato quasi evanescente: in Sicilia non riesce a trovare un candidato per le regionali di novembre dopo la rinuncia del presidente del Senato Grasso; in Lombardia i sindaci dem di tutti i capoluoghi dicono sì al referendum sull’autonomia promosso dal leghista Maroni; in Veneto, dove non governa, come in Friuli il Pd è ridotto ai minimi termini, in Basilicata non si celebra il congresso regionale dal 2015. In Emilia-Romagna il sindaco di Castenaso si fa fotografare euforico accanto a quello di Budrio, che ha strappato la città al Pd, e nel partito scoppiano polemiche infinite. Per non dire dei due sindaci di Bologna (Merola) e Milano (Sala) che sono anti-renziani a livello epidermico: proprio non lo sopportano.    Infine, c’è la questione scissione e abbandoni, più o meno silenziosi, dal partito. Il grosso dei quadri va verso Mdp. Solo negli ultimi giorni hanno lasciato il Pd 104 tra sindaci, assessori, consiglieri comunali e quadri della provincia di Lecce, 300 giovani dem a Reggio Calabria, il segretario cittadino di Modena, Filippo Calcagno, il consigliere regionale lombardo Onorio Rosati, l’assessore regionale abruzzese Marinella Scrocco. Al responsabile organizzazione di Mdp, Danilo Leva, brillano gli occhi.  Verso Campo progressista di Pisapia, invece, guardano con sempre più interesse sindaci ed esperienze civiche un tempo del Pd o vicine: il candidato sindaco di Frosinone, il sindaco di Latina che ha battuto la destra dopo cento anni, amministratori locali sardi e di altre regioni. Il primo luglio saranno in piazza con Pisapia, piazza dove ci sarà anche Antonio Bassolino, ormai in rotta con Renzi («Non è più lui»). Loro il centrosinistra ‘de-renzizzato’ hanno già iniziato a costruirlo. Nel Pd, invece, i ‘pezzi da novanta’ hanno appena iniziato a posizionarsi e a muovere le pedine.