Ciampi, il grande sarto della storia d'Italia

Seppe rilanciare l'idea di Patria. Difese anche contro Fini il valore dei nostri soldati a El Alamein

Carlo Azeglio Ciampi (Ansa)

Carlo Azeglio Ciampi (Ansa)

Roma, 17 settembre 2016 - Grande fu la delusione di Carlo Azeglio Ciampi nel leggere le cronache del viaggio “penitenziale” di Gianfranco Fini a Gerusalemme. Era il novembre del 2003 e, pur di lasciarsi alle spalle il passato missino, l’allora leader di An finì per assecondare una domanda su El Alamein che equivaleva a una netta ed inappellabile condanna. Racconta chi faceva parte dello staff di Ciampi al Quirinale, che il capo dello Stato se ne meravigliò assai: «Ma come — commentò — dopo quello che ho detto e ho fatto io...». Appunto. La verità è che Ciampi disse e fece quel che i leader della destra nazionale avevano accuratamente evitato di dire e di fare: tirò fuori dai congelatori della Repubblica la parola Patria e la ricamò a lettere d’oro sulle bandiere del Quirinale; ricucì le ferite nazionali rendendo onore sia ai vincitori sia ai vinti; suggerì alla politica una retorica, perché senza una retorica la politica si riduce a mediazione di interessi e inesorabilmente si slabbra. E’ stato, Carlo Azeglio Ciampi, il Grande Sarto d’Italia nell’epoca sbrindellata della Seconda repubblica.

Un anno prima della visita di Fini a Gerusalemme, prese la parola ad El Alamein nel giorno del sessantesimo anniversario dell’eroica battaglia in cui nel 1942 cui morirono circa 6mila soldati italiani. «È un onore essere qui con voi», disse ai reduci. Cui si rivolse «con commozione e con animo riconoscente». Erano italiani, combatterono per la Patria, morirono valorosamente: naturale, per un capo dello Stato, celebrarli. Cosa che in verità Ciampi fece già nel 2000. Ma per l’Italia fu un gesto rivoluzionario: «Una scelta infelice e inopportuna», scrisse Rina Gagliardi su Liberazione .

L’anno precedente, con analogo spirito, durante un discorso sulla Resistenza pronunciato a braccio Ciampi menzionò «i giovani che allora fecero scelte diverse credendo di servire ugualmente l’onore della propria Patria». Parlava dei giovani italiani che dopo l’8 settembre ’43 andarono a Salò e si arruolarono nella Repubblica sociale. Anche allora, seguirono polemiche. «Ciampi non si può permettere di dire ciò che vuole», sentenziò lo scrittore Antonio Tabucchi prima su Le Monde e poi su l’Unità . Il motivo? «Disorienta gravemente l’opinione pubblica italiana». Era vero il contrario.

Ciampi ha sempre inteso orientare gli italiani e per farlo dovette ricordargli che nel loro passato nazionale c’era anche il fascismo e furono «una nazione ancor prima d’essere uno Stato». Un discorso pubblico essenziale, dopo cinquant’anni di rimozioni cattoliche e comuniste del concetto stesso di Stato. Un discorso pubblico a suo avviso reso ancor più urgente dall’affacciarsi del federalismo nell’agenda politica italiana e dall’affermarsi di un bipolarismo troppo simile ad una «guerra civile fredda».

E dunque. Ripristinò la parata militare del 2 giugno ai Fori Imperiali («la nostra Repubblica non ha bisogno di esibire armi e strumenti di guerra», lo redarguì Bertinotti). Sdoganò l’Inno di Mameli. Esaltò il Risorgimento in generale e Mazzini in particolare. Celebrò, tra gli strali di Bossi, il Tricolore («esponiamolo nelle nostre case. Custodiamolo con cura. Regaliamolo ai nostri figli...») invitando i sindaci a «donarlo agli sposi quando celebrano un matrimonio». Fece aprire al pubblico il Vittoriano, e lì, sui marmi dell’Altare della Patria, portò ogni anno i giovanissimi per celebrare l’inizio della scuola. Prese, assieme alla moglie Franca Pilla, la residenza al Quirinale per meglio simboleggiare la sua totale identificazione con l’Istituzione e la storia nazionale. Contestò, per spirito di servizio repubblicano forse più che per reale convinzione, il concetto di «morte della patria».

Difficile dire quanto di tale e vitale retorica gli sia sopravvissuto nei cuori e nelle menti degli italiani. Certo è che nelle parole del presidente Carlo Azeglio Ciampi risuonò l’orgoglioso spirito di quel sottotenente dell’esercito italiano che dopo l’8 settembre rifiutò la Repubblica di Salò ma mai si liberò di una certa idea di nazione.