Pensavamo di esserci lasciatialle spalle guerre e malattieMa era soltanto un'illusione

ECCO: ci risiamo. O potremmo riesserci. Noialtri occidentali, che magari non saremo felici (la felicità non si compra) ma che comunque apparteniamo a una società ricca, democratica (più o meno), avanzata, mediamente longeva e perfino colta o sedicente tale, di solito ci crediamo fuori dal gorgo crudele della storia che pure, almeno fino a qualche decennio fa, non è stata tenera nemmeno con noi. Le guerre, le carestie e le epidemie ricordate i vecchi Cavalieri dell'Apocalisse? sono ormai roba che una volta angustiavano i nostri antenati e ora gli altri, i popoli di altri continenti. Altri tempi, altri luoghi: sempre insomma gli altri'. Noi non c'entriamo. Ma fra tutti i revenants letteralmente, gli spettri che ritornano' , il più inquietante anzi pauroso è quello della pandemìa, del contagio progressivo e inarrestabile che deve compiere il suo ciclo e che non si esaurisce se non ha profondamente colpito e sconvolto tuti i popoli, senza arrestarsi dinanzi a nulla, né ai mari né alle montagne. Da essa nascono le sconvolgenti immagini del Trionfo della Morte' e della Danza macabra', con i loro scheletrici protagonisti in atto d'insidiare, atterrire e perfino grottescamente sedurre tuto il genere umano, dagli imperatori e dai papi fino ai miserabili, ma anche alle belle fanciulle e ai teneri infanti. La Morte che non concede quartiere a nessuno, che non si lascia né muovere a pietà né corrompere. L'immagine riflessa della nostra fragilità e della nostra disperazione. NE HANNO parlato tutti, perché le malattie contagiose sono tanto antiche quanto tremende. Le frecce di Apollo sminteo' (il Signore dei Topi' sui quali cavalcano le pulci portatrici del bacillo) nell'Iliade; la peste di Atene' al tempo di Pericle, di cui parla Erodoto; quella di Giustiniano nel VI secolo, descritta da Procopio di Cesarea; la Morte Nera' del 1347-52, magistralmente evocata da Giovanni Boccaccio che fortunosamente l'attraversò; quella del 1630, che riempie di sé le pagine più drammatiche di Alessandro Manzoni; e infine le immagini esistenziali e metastoriche dell'epidemia descritte da La Peste di Albert Camus e dal film Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman. L'universale pandemia che meglio di qualunque altra sciagura sembra prefigurare l'immagine della fine del mondo'. Ovviamente, nel tempo abbiamo definito peste' malattie in realtà diverse da quella vera e propria. Quest'ultima restò endemica in Europa tra XIV e XVII secolo, e molto più a lungo in Asia; a essa nel tempo si aggiunsero altre epidemie non meno pericolose e letali, dal vaiolo al colera fino alla spagnola' del 1918, della quale sta per ricorrere il centenario. DA ALLORA, di tanto in tanto siamo stati attraversati da grandi paure' per epidemie che di solito si sono rivelate dei falsi allarmi, come l'asiatica' o la mucca pazza' di qualche anno fa. Ma un incubo più durevole, e giustificato, è stato e resta quello del virus Hiv. È l'Africa, che ci ha nel tempo regalato la forza-lavoro dei suoi schiavi e dalla quale oggi le lobbies multinazionali drenano i tesori che ci fanno ricchi mentre la maggior parte dei suoi abitanti sopravvive sotto il fatidico livello dei due dollari giornalieri, a essersi vendicata su di noi con l'Aids e a continuare adesso a vendicarsi con l'Ebola, il virus segnalato per la prima volta nel 1976 nel bacino del fiume congolese che le ha dato il nome. C'è una vignetta che in questi giorni sta facendo il giro del mondo: il volto nero di un africano, dai tratti indistinguibili ma dagli occhi minacciosi, accompagnato dalla scritta Vi siete dimenticati dell'Africa, ma l'Africa non vi dimentica'. È una frase terribile, che richiama certi proclami dei guerriglieri jihadisti del Mali settentrionale o del delta del Niger. E non a caso, cominciano a circolare sinistre voci, auguriamoci infondate, che associano il diffondersi dell'Ebola a una sorta di vendetta virale' escogitata dagli estremisti islamici contro l'Occidente. Anche in ciò, badate, nihil novi sub sole: anche nell'Europa del 1348 e del 1630 si parlò di una congiura di criminali (ebrei, saraceni e stregoni nel primo caso; untori' nel secondo) intesa a diffondere il contagio per mettere in ginocchio la Cristianità. E TORNA l'espressione fatidica: il Male assoluto', identificato dopo il 1945 nel razzismo nazista e quindi dalla propaganda reaganiana degli Anni Ottanta nel sistema sovietico e da quella bushista dei primi del nostro secolo nell'Islam allora definito fondamentalista'. In effetti, la contingenza che viviamo in questi giorni sembra caratterizzata dal corto circuito tra due Mali', entrambi secondo alcuni definibili assoluti': da una parte l'assalto jihadista dello Stato islamico' che riceve consensi dall'Africa all'Afghanistan; dall'altra quello virale che partendo dall'Africa minaccia ora di dilagare in America e in Europa. Nei prossimi giorni, i due Mali'si contenderanno le prime pagine dei giornali e domineranno il piccolo schermo turbando i nostri sonni: e qualcuno sta già cercando di stabilire tra loro dei nessi non casuali. Bisognerebbe non sottovalutare né l'uno né l'altro, ma al tempo stesso non lasciarci prendere dal pànico. Bisognerebbe mantenere la calma, ma non abbassare la guardia. Probabilmente, com'è accaduto in passato, né l'una minaccia né l'altra si rivelerà davvero letale. Il vero pericolo che ci minaccia, in questo contingente momento, è l'incertezza e il disorientamento. Jihadisti ed Ebola catalizzano un groviglio di preoccupazioni che ha le sue origini nella crisi economica e in quella dei valori culturali che stiamo attraversando. Che sia proprio questa, in ultima analisi, la nostra vera peste?