Lunedì 22 Aprile 2024

Pasolini ultimo grande "maledetto". La lezione di una vita scandalosa

Dopo di lui nessuno ha avuto il suo impatto come testimone del tempo

Pier Paolo Pasolini (Ansa)

Pier Paolo Pasolini (Ansa)

Forse occorre risalire a D’Annunzio per trovare nella cultura italiana un esempio di estremistico protagonismo come quello offerto dal vitalismo di Pier Paolo Pasolini. Non c’era settore della vita pubblica in cui non intervenisse sul “Corsera” e nelle sue interviste televisive. In questi quarant’anni anni la sua ombra inquietante si è avvertita accanto a molti degli opinionisti che invano cercavano di mutuarne la forza di suggestione. Scorrendo stagioni di decenni così diversi, né Alberoni, né Eco, né Cacciari, né Odifreddi, né Scalfari, né Saviano hanno potuto eguagliarne la forza di provocazione intellettuale, la capacità dirompente di scomodare e far pensare. Questi testimoni così “per bene” del nostro tempo erano, e sono, tutti privi del carisma di Pasolini. Era il dono che gli veniva invece dal maledettismo, dal suo scrivere come viveva, dal conoscere la carne dell’Italia che cresceva, calandosi ogni notte nella suburra dei sensi ad amare i “ragazzi di vita”, piangendone la perdita dell’anima innocente e contadina e il mutamento in uomini-massa della società dei consumi. Il suo dualismo catto-comunista ne faceva un testimone a 360 gradi della società, incline al misticismo eppure materialista. Eretico sia come cristiano che come comunista, omosessuale colpevolizzato eppure laicamente fiero, aveva quella marcia in più che deriva dallo sguardo “diverso” sul mondo tipica di alcuni grandi europei come Wilde, Proust, Mann, Kavafis, Gide, Lorca, Luchino Visconti, Saba, Fassbinder. Uno sguardo spesso omologo a quello donato dalla componente ebraica - penso a Michelstaedter, a Freud, a Bassani - che dona una speciale “doppia vista” per cui si appartiene e non si appartiene ad una comunità nazionale, capaci di decondizionarsi dagli idoli della tribù più in fretta di chi sia invece beatamente integrato.

Gli dobbiamo la rinascita dei dialetti, come genere nobile e cultura autoctona. La rivalutazione del Pascoli con una poesia legata alle piccole cose, alla Natura, ai campi, agli animali. La forte diffidenza contro la gregarietà dei mass-media che arrivò a fargli odiare la tv, arrivando a proporne l’oscuramento per qualche tempo. La difesa del diverso a tutto campo, umile, analfabeta, nero, gay, emarginato e oppresso comunque. La poesia civile, come disperato anticonformismo politico. Sapeva provocare fino a far perdere le staffe a menti freddine come quella di Montale, che lo definì in una lirica “Malvolio”, volendo sbeffeggiare un aspetto di corruttore del Male che in realtà non faceva che rendere Pasolini indiretto testimone del Bene. Contraddizione che è alla base del perdurante fascino del personaggio. Che il Tempo sembra rafforzare invece di spegnere.

Sentiva che la parte del poeta marxista era dissacrare, portare scandalo, confondere gli ipocriti, non abdicare all’autentico senso religioso della vita: parlare contro Mammona, in nome di Dio. Come molti cattolici Pasolini non aveva il sentimento del Paradiso, si fermava per sensualità alle soglie del Paradiso terrestre, ma aveva il senso dell’Inferno. Il suo tema segreto era la redenzione attraverso il peccato, come a voler riconciliare l’Inferno col Paradiso. Nel suo irrefrenabile vitalismo, fu poeta, narratore, regista teatrale e cinematografico, traduttore, critico, polemista sui giornali. Subì accuse di estetismo, di attrazione per il disfacimento, per la propria morte, come vittima innamorata del carnefice, tentata di baciare il nemico, in un bisogno immedicabile di redenzione. Ma certo una mente come la sua ci avrebbe aiutato a capire anche oggi il mondo, fra integralismi religiosi, terrorismo fanatico, eventi epocali tragici come le fughe di emigranti verso Occidente.