Garlasco, Alberto Stasi: io, vittima come Tortora. "I giudici volevano un colpevole"

Scrive al Qn dal carcere di Bollate: "Ricevo lettere da tutta Italia"

Alberto Stasi (Ansa)

Alberto Stasi (Ansa)

Bollate (Milano), 31 dicembre 2015 - Una lettera dal carcere di Bollate. Alberto Stasi scrive al nostro giornale. Lo fa riempiendo, in stampatello, sei facciate di fogli protocollo. Non è solo una lettera: è un memoriale, l’appassionata, lucida autodifesa del commercialista 32enne che la Cassazione ha definitivamente condannato a 16 anni di reclusione per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, il 13 agosto 2007, a Garlasco. Si è cercato il colpevole per il colpevole, sostiene Stasi, e da un processo mediatico è uscito il verdetto di condanna. Per questo non si sente un detenuto ma un «prigioniero».   «Mi sembra – scrive Stasi – che in casi come il mio si voglia a tutti i costi consegnare un colpevole all’opinione pubblica, senza però preoccuparsi se colui che viene indicato come tale sia effettivamente il colpevole e non una vittima di errate decisioni e aspettative. Non dimenticherò mai le parole di un ex magistrato, che alla domanda su cosa pensasse dei processi mediatici rispose: ‘il peggio possibile’. Disse che tale fenomeno condizionava sensibilmente il magistrato che si trova a decidere su un fatto già giudicato mille volte in tv da colleghi togati, giornalisti ed esperti poiché l’animo umano ha la tendenza a uniformarsi e una sentenza già scritta dai media è dannosissima». «La mia speranza, ancora oggi, è che tutti si possano rendere conto della condizione in cui vengono a trovarsi persone che come me, a causa di questa malsana tendenza a condizionare i processi celebrandoli, prima e male in tv, si trovano a essere giudicati in modo errato rispetto a quella che è la realtà. Ho saputo che nel mio caso – continua – la tematica è stata affrontata anche nella requisitoria del procuratore generale in Cassazione, il quale ha evidenziato come la mia vicenda processuale sia stata oggetto di ‘una perniciosa forma di spettacolarizzazione’ attraverso ‘quei processi in tv che inquinano la capacità di giudizio degli spettatori, tra i quali, forse nessuno ci pensa, rientrano anche i giudici, togati e popolari, di questa vicenda». Ha atteso il finale di partita «con l’intima (vana speranza) di un epilogo secondo giustizia e di un ritorno a una vita normale, se così poteva essere chiamata dopo l’incubo vissuto per più di otto anni». Speranza alimentata dalla circostanza che il pg di Cassazione, «con apprezzabile e non comune onestà intellettuale» aveva chiesto l’annullamento dell’unica condanna. Cosa è intervenuto a cambiare il suo destino giudiziario, dopo due assoluzioni? Nulla, secondo l’ex bocconiano. «La sentenza che mi aveva condannato l’anno scorso portava con sé grandi e grossolani errori, in quanto non vi erano elementi che facessero di me un colpevole. I fatti e le carte hanno sempre provato la mia innocenza e le nuove perizie fatte l’anno scorso avevano rafforzato questa verità. Questo era il processo; io ho sempre saputo di essere innocente. Non nascondo di avere temuto l’assurdo epilogo che oggi sto vivendo, visto l’incomprensibile iter processuale che ho dovuto vivere. In ogni caso, ho preso atto della decisione e, nel pieno rispetto della stessa, ho deciso di costituirmi immediatamente, senza nemmeno attendere l’ordine di carcerazione. Devo dire che chi mi era vicino in quel tragico momento ha fatto in modo che io non dovessi anche prestare il fianco a ulteriori speculazioni, come io stesso ho sempre cercato di fare. Del resto, in situazioni come queste, le persone vengono esibite come trofei alzati al cielo dopo una vittoria. È sempre stato così e sempre sarà, da Sacco e Vanzetti a Tortora». Una riflessione su cosa significhi essere in una cella. «Non è facile per un innocente che attendeva i giorni della sentenza con la speranza di ritornare libero, entrare in carcere. Sto cercando di inserirmi nella realtà carceraria. Il lavoro svolto da educatori, volontari e direzione penitenziaria è encomiabile. La vita di un detenuto non è solo una condizione fisica, ma è anche (e soprattutto) mentale: il corpo può essere ristretto, la mente no. Non mi sento un detenuto. Mi sento un prigioniero». La volontà di resistere. «Non voglio cedere allo sconforto, se non altro per le persone che amo e che non mi hanno mai lasciato solo. Benché io sia esausto, mi auguro di trovare la forza per resistere e ricominciare, passo dopo passo, quella forza che solo un innocente in cuor suo può avere in questa situazione». Dopo otto anni. «Questi otto anni mi hanno lasciato moltissime cose che mi porterò sempre dentro: la perdita di Chiara, con cui avrei voluto una vita insieme, la morte di mio padre, che è sempre stato al mio fianco, le tante difficoltà e ingiustizie, non ultimo l’allontanamento da mia mamma, che ora si ritrova da sola. Però in questi giorni tra tutti i miei pensieri ne prevale uno: un forte dubbio di non vivere in uno Stato di diritto». La vicinanza della mamma, di parenti, «di persone che non conosco e che mi scrivono da tutta Italia. Ricevo tantissime lettere di conforto e vorrei ringraziarli di cuore». La conclusione: «Affido i miei pensieri, i pensieri di un uomo di cui fuori si parla tanto, ma senza mai sapere cosa davvero prova».