Martedì 23 Aprile 2024

"Sì, una foto può svegliare il mondo". McCurry, il clic cambia la storia

"Dobbiamo vedere ciò che ci disturba. Così ricordiamo le tragedie"

Steve McCurry durante alla mostra di Milano nel 2009 (Newpress)

Steve McCurry durante alla mostra di Milano nel 2009 (Newpress)

Roma, 5 settembre 2015 - Mister McCurry, ha visto la foto del piccolo Aylan, morto sulla spiaggia di Bodrum? "Certo che l’ho vista. E sono convinto che tutti debbano vederla. Abbiamo bisogno di vedere immagini crude, che ci disturbano, che ci scioccano. Ed è stata un’ottima idea pubblicare le foto del bambino. Non possiamo scappare dalla realtà; quello è un modo per raccontare la storia, anche se estremamente crudele. Dobbiamo assolutamente comprendere in che tipo di mondo viviamo".

Lei crede che una foto possa essere pedagogica, possa insegnare a capire? "Una foto prima di tutto scatena emozioni, suscita pietà, provoca rabbia e sgomento. Poi si sedimenta e può educare la gente, spingendola a risolvere i problemi. La storia del piccolo Aylan sarà una prova di quello che sto dicendo. E’ un’immagine molto forte, ma riassume una tragedia, anzi le mille tragedie scatenate da quest’esodo biblico, da questa fuga dalle guerre e dalla fame di centinaia di migliaia di persone. Per questo io benedico il messaggio partito da quella foto. Il diritto alla casa, al cibo, al lavoro, a crescere, ad avere un’infanzia felice, sono tutti affogati assieme a Aylan".

A parte l’emozione, come può la storia del bimbo contribuire a risolvere il problema della Siria? O quello di Kobane, ancora più complesso, visto che l’enclave è sotto assedio dell’Isis e della Turchia? "Il fatto che lei mi chieda di Kobane, che oggi tutti parlano di Siria, di trappole e diplomazie bloccate, dimostra che lo choc sta facendo il suo effetto. Russia e Stati Uniti si stanno parlando, l’Unione Europea sta allentando le sue resistenze nell’accogliere migliaia di profughi. Non sono ancora soluzioni, ma passi lungo un processo per arrivarci. E così deve essere per l’Iraq, per il Pakistan, per le tante crisi che spingono gente affamata a scappare verso l’Europa. In nome del diritto universale ad avere una vita, se possibile, migliore".

E’ questo il ruolo della fotografia o della stampa, o della tv? Fare da sveglia alle coscienze? "Le foto del Vietnam o del Nepal hanno modificato la pubblica opinione, non solo negli Stati Uniti. La foto si fissa nella memoria, e noi abbiamo bisogno di ricordare e documentare il mondo in cui viviamo. E’ questo il suo potere, e in passato ha cambiato molte cose. La fine della guerra del Vietnam è dovuta anche alle immagini dei massacri".

Un contributo piccolo... "Può darsi. Ma non siamo tutti Nelson Mandela, non possiamo cambiare tutti la storia. Il piccolo della foto è una voce flebile, ma tante voci fanno una grande musica che può entrare nelle orecchie del mondo e fargli girare la testa".

Qual è il prossimo dramma che vorrebbe immortalare? "Sto andando in Russia. Niente Cecenia o Ucraina, ma Mosca. E’ un mio progetto, niente guerre".