Natale, Mauro Corona: "Poco Gesù, abolirei la ricorrenza"

Non chiedete a Mauro Corona che cosa pensi del Natale, vi risponderà così: "Fosse per me, lo abolirei. C’è l’idea che si debba per forza fare festa. Basta vedere la pacchianeria..."

Mauro Corona (Olycom)

Mauro Corona (Olycom)

Roma, 19 dicembre 2015 - Non chiedete a Mauro Corona che cosa pensi del Natale, vi risponderà così: "Fosse per me, lo abolirei. C’è l’idea che si debba per forza fare festa. Basta vedere la pacchianeria dei regali, la frenesia degli acquisti nei supermarket. Non la vedo come una cosa naturale". Scrittore e poeta della montagna, formidabile parlatore, Mauro Corona è uomo dei boschi e delle vette innevate, ma non rifugge il glamour mediatico-letterario. Fra tanti romanzi di successo, ha scritto anche sul Natale, o contro il Natale.

Corona, che cos’è il Natale?

"Sarebbe la festa di Gesù che nasce, per chi ci crede. Una giornata di riposo, di attenzione verso i propri cari. A Natale ci sentiamo tutti buoni… Ma io ho scritto una frase, parafrasando una canzone di De Gregori: la guerra siamo noi. Diciamocelo chiaro: siamo invidiosi, siamo rancorosi. La guerra la vediamo nell’altro. Ecco perché il Natale è fasullo. Lo diceva La Rochefoucauld: nelle disgrazie dei nostri migliori amici, c’è sempre qualcosa che non ci dispiace affatto".

Non le sembra d’essere un po’ troppo severo?

"Guardi, posso dire che l’ipocrisia della bontà, il chiudersi nel proprio bozzolo familiare, possono essere interpretati anche come segni di fragilità, un modo di aggrapparsi a qualcosa pur di sostenersi. Ma il Natale non mi piace proprio".

E quindi lei come lo passa?

"Io l’ho sempre passato coi barboni e con la povera gente. Fino all’anno scorso lo passavo con Icio, il mio carissimo amico, più giovane di me, il protagonista dei miei libri. Icio è mancato nell’agosto scorso, con i suoi problemi con l’alcol e con la vita che gli aveva sparato alle spalle. Andavo con lui, poi c’era il Silvio, il Carlo, l’altro Carlo, cioè gente di margine, non per questo meno intelligente o sensibile. Era gente abbandonata e quindi io stavo con loro".

Quest’anno quindi che farà?

"Inventarmi un amico nuovo è difficile… Potrei andare a Belluno, a trovare qualche barbone…".

Corona, lei ha una famiglia, dei figli. Il Natale sarà stato anche per lei un’occasione di raccoglimento.

"No, mai. Io a Natale non sto mai nella famiglia. Le famiglie sono luoghi impenetrabili, sono fortezze chiuse. Anche quando avevo i figli piccoli, che era doveroso fare qualcosa con loro, io me ne andavo, perché non stavo bene là dove non poteva entrare il povero o colui che non ha nulla. Certo, ci sono anche persone che invitano a casa dei barboni, della povera gente. Sono quelli che ancora mi fanno sperare. Ma io non vedo l’ora che passi, il Natale".

Ha qualche ricordo?

"Ho conosciuto padre David Maria Turoldo e c’era quella sua poesia: quando facevo il pastore / ero certo del mio Natale / i campi congelati / dove volavano i corvi… Non me la ricordo bene a memoria. Ricordo il Natale di quando ero ragazzino con mia nonna, mio nonno, il Natale di quando si era poveri. E anche la fede - nella povertà - diventava essenziale. Si accendeva un falò e si proteggeva il bambin Gesù con un ceppo di carpino; si dividevano le poche cose che avevamo con la gente della contrada. Si andava a messa a mezzanotte. Oggi chi è che fa più la messa a mezzanotte? I preti sono spicci, non hanno tempo da perdere. Qui fanno la messa alle otto e mezza, alle nove. Però non posso mica dire che sono un nostalgico di quei tempi. Bisogna accettare i cambiamenti. La società è frenetica, è rimasto solo il rituale goffo, maldestro e anche fasullo del Natale: i regali, il cenone, quelle cose lì".

Come potrebbe essere un Natale accettabile per lei?

"Un Natale povero, creativo, condiviso. Allo stesso modo del Capodanno nelle piazze. Perché non cominciamo a fare il Natale fuori dalle case? Si può andare nelle piazze e dire: 2015 anni fa nasceva il Gesù, festeggiamo, beviamo un bicchiere".

Capodanno dunque è da salvare?

"Se vogliamo, è più forte del Natale. Ogni anno c’è una tesserina o due o tre del mosaico dei nostri amici che se ne va, che si stacca, e quindi il Capodanno è una cosa tragica e che fa riflettere. Io mi dico: cosa succederà alla fine del prossimo anno? Ci sarò ancora, io? E questo mi spinge a non perdere tempo in stupidaggini. Se ho voglia di fare una camminata in un bosco, e ho la possibilità di andare in tv a far vedere la mia brutta faccia, voglio riuscire a togliermi la vanità e dire: no, niente tv, vado a fare la passeggiata. Perché quella è una cosa che potrei anche non avere più il prossimo anno; la tv invece è solo esibizione di vanità. Il passaggio da un anno all’altro deve servire a migliorare il nostro modo di vivere".

Un augurio per il 2016?

"Io sono un uomo cinico, perché mi sento fallito: vorrei vendere gli stessi libri di Fabio Volo e invece ne vendo un decimo. Allora dico che il 2016 sarà peggior del 2015 ma migliore del 2017".