Jovanotti all'assalto degli Usa. E al guru Rubin dice: mi fido di te

Lorenzo cambia produttore dopo 17 anni, puntando su una vera star

Il cantante si esibirà per due volte a Viareggio: il 30 luglio e il 31 agosto

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Milano, 29 luglio 2017 - ERA L’AGOSTO di dieci anni fa quando il New York Times Magazine si chiedeva in copertina se Rick Rubin, il gran mogul della discografia americana, sarebbe riuscito a salvare il music business. A tutt’oggi non è chiaro se il più carismatico dei produttori d’oltreoceano sia riuscito fino in fondo nell’impresa, di sicuro però Jovanotti gli ha chiesto di salvare il suo di business, affidandogli la produzione del nuovo album in uscita il primo dicembre per Universal.

I due cominceranno a lavorare fra qualche giorno. Anche se le oltre 250mila copie vendute e i 5 dischi di platino incorniciati dall’ultima fatica “Lorenzo 2015cc” dicono che le quotazioni del Ragazzo Fortunato rimangono alte e che da “salvare” sono soprattutto i suoi appetiti per quel mercato americano in cui questa mossa prova a farlo entrare dalla porta principale.

I 10 Grammy incassati a Rubin a vario titolo e i 20 album arrivati in vetta alla classifica di Billboard grazie al suo magico tocco, mettono l’accento sulle ambizioni di Jovanotti, che puntando sul grande nome americano deve aver vissuto uno di quei momenti in cui non è facile essere artisti, perché istinto e ambizione finiscono col giocare una partita diversa rispetto a quella dei sentimenti. Per lavorare con Rubin l’eroe di “Ora” s’è visto costretto, infatti, ad archiviare il rapporto simbiotico che lo legava a Michele Canova Iorfida, al suo fianco dai tempi di “Buon Sangue”, mettendo fine ad un’avventura durata diciassette anni. Canova è da anni il più ricercato produttore italiano, con un’agenda di collaborazioni che va dalla A di Amoroso e Antonacci alla Z di Zilli (intesa come Nina), oltre a quella storica con Tiziano Ferro del quale ha realizzato tutti e sette gli album, ma lo strappo è di quelli che fanno male lo stesso. Nonostante i 54 anni e la barba da asceta himalayano, Frederick Jay Rubin dal canto suo rimane sempre il ragazzo ebreo della camera 712, quella alla Wenstein residence hall della New York City University dove nel 1982 assieme allo scaltro Russell Simmons fondò la Def Jam, l’etichetta divenuta grazie a Beastie Boys, Public Enemy, LL Cool J, Run DMC un’istituzione dell’hip-hop e della discografia americana. Quando Rubin nell’84 produsse l’ep dei Beastie Boys “Rock hard” fondendo rock e rap inventò un genere, ma poi si spinse molto oltre.

È stato lui a far trasformare i Red Hot Chili Peppers in quello che sono oggi e a riverniciare il monumento Johnny Cash poco prima dell’addio. Le cronache raccontano che quattro anni fa Eminem aveva addosso l’emozione di un ragazzino mentre il guru newyorkese gli spiegava come registrare “The Marshall Mathers LP 2” e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto il curriculum da brivido di un gigante che fra le sue collaborazioni annovera Rage Against the Machine, Audioslave, Slayer, Tom Petty, Ac/Dc, Mick Jagger, Metallica, ZZ Top, Linkin Park, U2, Jay-Z, Justin Timberlake, Slipknot, Kanye West, Black Sabbath, senza tralasciare l’Ed Sheeran di “X”, la Lady Gaga di “Artpop” o l’Adele di “21”. «Lui è bravissimo a spingere gli artisti che produce verso nuove direzioni» spiegava qualche anno fa Chester Bennington, il cantante dei Linkin appena scomparso, parlando di Rubin. «È un capitano portato ad assecondare i desideri della sua ciurma, anche se alla fine il timone della nave rimane saldamente in mano sua». A Jovanotti ora il compito di mettere la prua verso l’oceano.