Mercoledì 24 Aprile 2024

Il robot suona come i Beatles. La nuova rockstar è un algoritmo

L’intelligenza artificiale tenta la scalata all’hit parade: presto un album

The Beatles (Ansa)

The Beatles (Ansa)

Roma, 30 settembre 2016 - Doveva succedere. Nell’epoca dei robot e dell’intelligenza artificiale, dopo aver visto un computer (Deep Blue) che sconfigge un campione di scacchi e un altro (Watson) che batte i campioni di “Leopardy!” (una specie di “Lascia o raddoppia”), ecco l’algoritmo musicista. La notizia proviene dai laboratori parigini di Sony Music: sta per uscire il primo album realizzato attraverso l’intelligenza artificiale, con la suggestiva aggiunta che la prima traccia – “Daddy’s Car”, già disponibile in Rete – si ispira alla musicalità dei Beatles. Ascoltare per credere: è vero, sembra di sentire il primo Paul McCartney, sia pure in versione decisamente stereotipata. E non poteva essere altrimenti, visto che il punto di forza dell’intelligenza artificiale, più che la creatività, è l’enorme capacità di calcolo.

L’algoritmo della Sony ha ascoltato, registrato, assimilato il contenuto di un archivio contenente oltre 13 mila brani musicali di generi diversi (pop, rock, jazz...) e alla fine, seguendo le indicazioni ricevute dai programmatori, ha “sputato” le sue note, che però sono diventate canzoni vere e proprie solo grazie all’intervento di un musicista in carne e ossa, vale a dire Benoit Carré, che tuttavia non può essere considerato l’autore di “Daddy’s Car” e dell’album che verrà. E chissà come sarà qualificato: facilitatore? Finalizzatore? Tutor?

Ma questo è solo un dettaglio; il succo è che ci avviamo ad affrontare una potenziale popstar post-umana. Un’entità che si affaccia sulla linea di confine che separa intelligenza e creatività. L’algoritmo – sostengono esperti e ricercatori – può accrescere le capacità del cervello umano (l’intelligenza), grazie all’enorme potenza dei calcolatori, ma non può andare oltre, non può cioè rimpiazzare l’attitudine a creare e innovare tipica della nostra mente.

Sarà certamente così – il ruolo decisivo di Benoit Carré lo conferma – ma “l’invasione degli algoritmi” è appena agli inizi e sembra destinata a cambiare il modo di concepire la musica. Uno strumento capace di “navigare” in archivi pressoché sterminati di brani già esistenti, seguendo indicazioni predefinite, è destinato a muoversi secondo criteri che vanno ben oltre le nozioni di citazione e plagio. Chissà, potrebbe emergere un modo algoritmico di creare melodie.

Pedro Domingos, nel suo libro “L’algoritmo definitivo” (Bollati Boringhieri 2016), ha scandagliato il nuovo campo di studi denominato “machine learning”, ossia la capacità dell’algoritmo di programmare se stesso, attraverso un processo di apprendimento progressivo. Di algoritmo in algoritmo, spiega Domingos, la “macchina” può seguire percorsi del tutto originali, anche se la sua attitudine non è creare bensì collegare fra loro masse imponenti di dati. L’esempio tipico è la prospettiva dell’algoritmo-medico, in grado di confrontare gli elementi diagnostici disponibili con l’intera letteratura medica esistente, come nessun umano potrebbe fare. Con l’arte e la musica il discorso cambia, perché non si tratta solo di immagazzinare e connettere dati. Ma il processo creativo della mente umana può davvero prescindere dal già noto, già detto, già sentito, già cantato?

In attesa di risposte convincenti, Sony Music ha lanciato la sfida. Il suo cervellone – si chiama Flow Machines – ha per ora prodotto due brani, ma l’anno prossimo l’album sarà pronto e proverà a scalare le hit parade. Deep Blue, nel 1997, riuscì a sconfiggere un fenomeno degli scacchi come Garry Kasparov; Flow Machines vent’anni dopo proverà a mettersi sulla scia dei Beatles. Al momento però l’impresa non sembra alla portata della macchina. Viene così alla mente un altro momento topico del confronto uomo/macchina: il giorno che Eugene Gootsman, ragazzo ucraino tredicenne, in realtà un “chatbot” (un programma in grado di dialogare), superò il Test di Turing, facendo quindi credere a tre giudici umani su dieci d’essere una persona. Ma Gootsman la spuntò solo grazie all’imperizia dei giurati, condizionati dalla scarsa competenza linguistica in inglese dell’ipotetico ragazzino ucraino.

L’exploit dunque non c’è stato. E per il momento possiamo dire che i Beatles non avrebbero mai suonato e cantato qualcosa come “Daddy’s Car”.

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