Martedì 23 Aprile 2024

Una Cinecittà per sognare

La Hollywood sul Tevere compie 80 anni. I kolossal, Fellini, gli investimenti, il futuro: una storia che continua, tra star e Oscar

Una scena di 'Vacanze romane', girato a Cinecittà

Una scena di 'Vacanze romane', girato a Cinecittà

Roma, 28 aprile 2017 - COME direbbe Benigni, celebrare Cinecittà, per il cinema italiano, è come celebrare la mamma per i suoi bambini, la Coca Cola per l’estate, la Lupa per Romolo e i sette re di Roma (tanto per spigolare tra la prima grande stagione dei kolossal storici celebrativi nel fascismo e i peplum negli anni ‘50/’60). Cinecittà è un’avventura industriale e sociale rispecchiata nella storia del nostro Paese, ma è anche qualcosa di più: come sanno i poeti non esiste identità nazionale senza un luogo dell’immaginario che la identifichi.    È STATO un lungo cammino verso quello che rimane – come impianto – il secondo dopo Hollywood nell’emisfero occidentale: dal primo passo del «grande complesso di stabilimenti, strumento tecnico di eccezionale potenza», nell’inaugurazione del 28 aprile 1937, col duce sotto il celebre manifesto (l’occhio nella cinepresa e la scritta cubitale: «La cinematografia è l’arma più forte»), alla trasformazione da ente pubblico a società per azioni, appena prima dei fatidici anni 00, che la determinò come la struttura di business che conosciamo ora, con i 22 teatri di posa impegnati tra i film itlaiani, le coproduzioni internazionali, gli appalti televisivi. Il bigino emotivo dei nostri occhi sui decenni trascorsi passa davvero per nomi, film, correnti, epoche come frecce al cuore. L’era fascista del grandi piloni di cartone, i cavalli e le daghe di “Scipione l’africano” o “Il feroce saladino”. La ferita industriale della guerra, quando Cinecittà fu requisita dagli americani per ricovero degli sfollati. E poi, più che per i maestri del Neorealismo, che per diversi anni hanno lavorato nelle città e nella campagne fuori dagli studi (sempre col fondamentale sostegno delle squadre tecniche degli stabilimenti), Cinecittà diventa la sede della rinascita industriale del cinema per (e nonostante) l’apertura al mercato americano. Hollywood sul Tevere: bighe al centro di centinaia di comparse e divi nella “dolce vita” delle ricostruzioni, d’antichità (da “Cleopatra” a “La Bibbia”) o novecentesche (“Addio alle armi”, “Vacanze romane”), per ricordare la scuola di straordinari scenografi cresciuta e premiata. La commedia all’italiana, con i suoi interni piccolo borghesi. Le cittadine terse e legnose del western spaghetti.    E IL BALZO verso la crisi degli anni 60/70, segnati per riflesso dalla crisi del cinema americano, il quale tolse il disturbo (anche per la nuova legge). Loro inventarono la New Hollywood, noi ci siamo un po’ impantanati tra contestazione e sbandamenti politici. Abbiamo però il solo, l’unico cantore dell’immaginario dispiegato in un hangar: Fellini, in fondo, ha scoperto che Cinecittà ha un’anima, ha definito la sua forma e l’ha fotografata. Siamo, oggi, forse al tempo di un ritorno di Cinecittà sotto il controllo pubblico. Mentre si prepara la produzione impegnativa, e già di successo si direbbe, della seconda serie di “Young Pope”, gli azionisti attuali di maggioranza sono al lavoro. Lasciamo però finanza, contratti e consigli di amministrazione al futuro, ricordando nella voce di un fondatore le qualità universali per costruire insieme: «Quando cercavo lavoro a Cinecittà, per partecipare a un provino per un film era indispensabile avere belle scarpe nere. Non c’avevo una lira. Ma volevo fare quel provino. Sono entrato in un negozio, ho scelto le scarpe, ho spiegato al padrone che mi servivano per un provino e che sarei tornato con i soldi. Gli ho chiesto di credermi. E lui si fidò, perché aveva capito che io ero convinto di quello che facevo. Tornai e pagai tutto. Ho incominciato così». Dino De Laurentiis dixit.

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