Bud Spencer, il ricordo del figlio. "E' una leggenda anche in Cina"

"Era un finto burbero. I fan lo considerano un mito: mi scrivono da tutto il mondo"

Bud Spencer sul set di "Lo chiamavano Trinità" (Olycom)

Bud Spencer sul set di "Lo chiamavano Trinità" (Olycom)

Roma, 26 giugno 2017 - «Pensi che in Germania, per commemorare il primo anniversario della scomparsa di papà, gli hanno dedicato un francobollo! Sinceramente non so a quanti italiani sia stato tributato un simile onore...». Giuseppe Pedersoli, classe 1961, è il figlio di Carlo. Alias Bud Spencer. Un mito del cinema italiano, senza se e senza ma. I suoi cazzotti e i suoi grugniti hanno divertito intere generazioni. Ignorando barriere, cancellando confini.

«In famiglia continuiamo a ricevere lettere. Anche dalla Cina, persino dall’Iraq. E il messaggio si somiglia sempre: grazie per l’allegria, per la felicità trasmessa...»

Suo padre era consapevole di essere così popolare?

«Se ne rendeva conto, sì. Magari con una punta di stupore. Vuol sapere una cosa?».

Prego.

«Lui non è mai stato un piacione, come si dice a Roma. Non si metteva in mostra, non ostentava il successo».

Burbero come sul set.

«No, no. Anche nei personaggi che interpretava al cinema era un finto burbero. Nella vita privata era un uomo semplice, molto solare, socievole. Solo, non aveva bisogno della pubblicità facile, ecco».

Gli bastavano i trionfi al botteghino.

«Era consapevole del suo valore, non gli mancava l’auto stima. Ha lavorato con grandi registi, ero bambino e lo accompagnai sul set di Torino nera, un film di Carlo Lizzani. Ha recitato anche per Dario Argento in Quattro mosche di velluto grigio, erano amici. Ma non se la tirava da divo».

Invece lo era: con rispetto parlando, non c’è attore italiano conosciuto come lui, nel mondo.

«Forse la serie più fortunata è stata quella di Piedone lo Sbirro».

Strano, avrei puntato su Trinità e Bambino, su tutti i film girati insieme a Terence Hill.

«Ah, tra loro esisteva una complicità speciale. Non si sono mai frequentati molto fuori dal set, ma quando si ritrovavano per recitare assieme era sempre una festa».

Nessuna gelosia da prime donne, pardon, da primi attori?

«Per niente. Erano così affiatati che talvolta improvvisavano, sul set. A uno veniva in mente una smorfia e l’altro gli andava dietro, in una girandola di invenzioni. E poi c’era il rito degli spaghetti».

Gli spaghetti?

«Deve sapere che Terence, che poi si chiama Mario Girotti, è sempre stato un fanatico della dieta. Però quando veniva a mangiare con noi mio padre gli faceva trovare gli spaghetti cucinati da mamma e lui si arrendeva...».

Torniamo a Piedone.

«Il regista era il grande Steno, uno dei maestri della commedia all’italiana. Deve sapere che a papà non piaceva essere doppiato, come invece accadeva nei western, che venivano girati in inglese. Per lui anche la voce era importante! Nei panni di Piedone parlava proprio lui, sul grande schermo. E ne era contentissimo».

Che ricordi aveva dei suoi trascorsi di campione? Nel nuoto fu il primo italiano a scendere sotto il minuto nei 100 stile libero e ha anche partecipato alle Olimpiadi.

«In piscina aveva consumato la sua giovinezza, ha giocato anche nella nazionale dì pallanuoto. Se c’era una gara importante in televisione la seguiva volentieri. E in fondo l’amore per la competizione gli era rimasto. Una volta al mare un amico gli lanciò la sfida. Papà rispose: ok, ma non voglio vincere facile, tu usa pure le pinne, ti concedo il vantaggio».

E come andò a finire?

«Beh, vinse Piedone lo Sbirro...».

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