Bruce Springsteen, libro e confessioni: "Suono per battere la depressione"

Il Boss ha presentato a Londra la sua autobiografia "Born to run"

Bruce Springsteen presenta il suo libro a New York (Ansa)

Bruce Springsteen presenta il suo libro a New York (Ansa)

Londra, 18 ottobre 2016 - Harry Potter e il piccolo impostore che volle farsi Boss. Solo qualche settimana fa, nelle librerie londinesi sarebbe stato arduo anche solo ipotizzare l’eventualità che Bruce Springsteen con la sua autobiografia data alle stampe per esorcizzare il fantasma della depressione potesse insidiare lo strapotere editoriale del maghetto. E invece il “libro magico” con i ricordi virati ocra dell’uomo nato per correre ha finito col dare filo da torcere ai fulmini e alle saette del potteriano “La maledizione dell’Erede”; inducendo lo stesso Bruce a prendere il toro per le corna e a planare ieri pomeriggio all’Institute of Contemporary Art della capitale inglese per parlare con la stampa europea di questo suo exploit letterario.

Ma chi pensa che le 528 pagine di “Born to run” più che una pietra filosofale somiglino ad un mattone spinto dai voraci appetiti dell’editore Simon & Schuster (in Italia è pubblicato da Mondadori) non ha fatto i conti col bisogno di raccontarsi che aveva il “piccolo impostore” sette anni fa, quando ha iniziato ad appuntare sensazioni e ricordi sul proprio sito web per esorcizzare l’incubo dell’esibizione nell’intervallo del Super Bowl e quel sacro terrore che ti coglie cinque minuti prima di andare in scena, quando alla cloche del tuo “cacciabombardiere” ad alto volume finisci con l’implorare la misericordia divina “di evitarti figuracce davanti a cento milioni di telespettatori”.

«Ho iniziato a scrivere questo libro per i miei figli» spiega Bruce Frederick Joseph Springsteen, 67 anni, jeans, giubbotto nero e maglietta, inforcando di tanto in tanto un paio di occhialini per leggerne alcuni passi. «Volevo lasciare a Sam (che fa il pompiere - ndr), Evan (dee jay a Radio Sirius XM) e Jessica (campionessa di ippica) un pezzo di storia della loro famiglia, poi mi sono divertito con la scrittura e ho pensato di pubblicare tutto».

Beh, se Dylan ha vinto il Nobel c’è una speranza anche per lei.

«Non scherziamo. Veniamo da mondi diversi e la mia scrittura non ha certo avuto sulle cose del mondo l’influenza che ha avuto la sua».

Quando l’ha scoperto?

«Credo nel ’65, ascoltando ‘Like a rolling stone’ alla radio».

E il vostro primo incontro?

«È stato nel ’74 durante una tappa della Rolling Thunder Revue. Io avevo 25 anni, lui 35».

Cosa ha provato al momento della pubblicazione di questo libro?

«È stato strano mettere la parola fine ad un lavoro di sette anni e non imbarcarmi in una tournée per presentarlo alla gente come avviene con i dischi».

Perché l’ha fatto?

«Perché penso che la gente possa essere curiosa di conoscere le storie vere su cui spesso poggia l’immaginario di una canzone».

La figura di suo padre Doug è molto presente nei suoi racconti.

«Già, ma non ho scritto questo libro per regolare i conti con mio padre. Anche se concordo con TBone Burnett quando dice che gran parte del rock’n’roll è condizionato dalla relazione padrefiglio».

Ma nei suoi sogni di bambino avrebbe mai potuto immaginare tutto questo?

«A quindici anni sogni di essere Mick Jagger, con gli Stones che pendono dalle tue labbra. Poi abbassi le pretese. Io, ad esempio, quando frequentavo i concerti e guardavo i miei eroi sul palco non sognavo nemmeno il ruolo di chitarrista solista, ma quello del chitarrista ritmico».

Oltre alla chitarra c’è una voce importante.

«Marvin Gaye aveva una voce importante, Rod Stewart ha una voce importante. La mia è raucedine».

I suo concerti di tre ore e mezzo hanno fatto storia.

«Agli inizi, nei bar, con i ragazzi della E-Street Band suonavamo anche cinque ore, tirandola quindi molto più lunga di quanto accade oggi».

Le maratone sono un bell’antidoto a quella depressione di cui ha iniziato a soffrire attorno ai sessant’anni.

«Già, suonare tanto mi lascia svuotato e questo allevia il malessere. Può sembrare paradossale, ma per essere depressi ci vogliono delle energie. E poi mi sento ancora il fisico di quando avevo quarant’anni, quindi non vedo motivo per smetterla con i concerti».

Quali sono le sue letture?

«Jim Thompson, John Cheever, Philip Roth. Pure ‘Moby Dick’ di Melville non è poi così noioso. Ma anni fa ho avuto anch’io il mio periodo russo, a cominciare da Dostoevskij».

E le sue radici italiane?

«Le amo. E sogno sempre di andare a Vico Equense dove c’è ancora la casa di famiglia di mia madre Adele. Mi spiace solo di non essere riuscito nell’intento; nemmeno quando ho suonato a Napoli».

Cosa vorrebbe mettere nella prossima autobiografia?

«Non credo che ne arriverà mai un’altra. Certi libri sono come i dischi; nel primo metti venticinque anni di esperienza nei successivi solo gli ultimi sei mesi. Mi piace molto, però, il percorso creativo».

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