Mercoledì 24 Aprile 2024

Tra Roma e il Brasile, prova d’artista per Mannarino

Il cantautore nell'album 'Apriti Cielo' mescola folk e stornelli ai suoni di Bahia

Mannarino

Mannarino

Milano, 14 gennaio 2017 - CON IL TEMPO Alessandro Mannarino è riuscito a sublimare la rabbia del bar per trasformarsi dal «pupillo di Serena Dandini» in un riferimento della canzone d’autore. Certo, l’uomo in qualche scemenza ha continuato ad inciampare, leggi la resistenza a pubblico ufficiale che l’anno scorso gli è costata una condanna a 18 mesi di carcere con sospensione della pena, ma l’artista no, ha cambiato passo col predecessore “Al monte” e confermato tutte le sue qualità con il nuovo “Apriti cielo”.  CHE QUESTA sua quarta fatica sia un gran prova d’artista, un disco ben attrezzato per non farsi inghiottire dal rumore di niente di questi nostri anni distratti, affiora con autorevolezza da nove canzoni che hanno il sangue, il rigore e l’urgenza dell’arte ruvida ma necessaria. Il Brasile di “Vivo” e di “Arca di Noè” arriva da lontano, da quando il cantautore romano suonava nei locali multietnici del rione Monti o vicino la stazione Termini. «Luoghi in cui Sudamerica, Africa e Italia si incontravano che mi hanno spinto col tempo a mettere in musica i colori dei miei viaggi in giro per il mondo: affiancando le tonalità cangianti del cielo di Roma a quelle smaglianti delle favelas brasiliane; il nero dei ritmi tribali e il bianco della poesia europea». E questo piacere per lo scambio, per la contaminazione che porta tra i solchi del disco il sax di Enzo Avitabile e le percussioni brasiliane di Mauro Refosco si spande in diverse citazioni. «Fare le cose di spessore e rimanere di nicchia, è da str**zi, da razzisti; se un disco del genere arriva alla massa, penso di aver svolto bene il mio lavoro» giura Mannarino. «Concepisco questi miei dischi come una saga e quando la considererò conclusa cambierò mestiere; ho trentasette anni e non mi ci vedo ancora lì, a sessanta, a fare l’autoparodia di me stesso». Fra i colossi da guardare con rispetto e una punta di soggezione, cita Dylan, Buarque, Coltrane, Monk, la Piaf, ma pure De Andrè e quel Paolo Conte «che nelle sue canzoni racconta le donne come non le ha mai raccontate nessuno».  “GANDHI” dura sette minuti ed è un pezzo di rottura in chiave blues, in cui l’immagine del Mahatma viene ironicamente utilizzata per parlare tutto e del contrario di tutto, mentre “Roma” sfrutta il dialetto per avventurarsi in un viaggio che dall’urbe porta a George Orwell e a Philip Dick: «Canto la mia Roma divenuta una provincia di quell’impero di cui un tempo era la capitale, con un domani che non mi somiglia e che m’inquieta». A Roma debutta il tour, il 25 e 26 marzo, al PalaLottomatica. 

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