Mercoledì 24 Aprile 2024

«Io e papa senza pensarci di corsa verso l'altoE fu soltanto cosi che riuscimmo a salvarci»

Federico D'Ascoli «DAI BABBO, portami a Bruxelles». La prima partita della Juve allo stadio è un regalo speciale, indimenticabile per Maurizio. Non è una partita qualsiasi: è la più importante d'Europa, la finale dell'unica coppa che manca a Madama. Ma babbo Roberto non si fida: i biglietti trovati all'ultimo tuffo con un'agenzia di viaggi sono per un settore di curva. Troppi rischi per il figlio Maurizio che non ha ancora 14 anni. Alla fine, però, cede alle insistenze del ragazzo. Destinazione Heysel di Bruxelles, rima che riecheggia la baldoria crudele, la violenza ebete e il carosello assurdo del 29 maggio 1985. Trent'anni fa, oggi. «Sarebbe stata la mia prima volta con la Juve dal vivo, in finale di Coppa dei Campioni: quando mio padre mi disse sì ero al settimo cielo racconta Maurizio Maggi che oggi ha 44 anni sembrava una grande festa: la mattina arrivammo nella Grand Place e scambiai la sciarpa con un ragazzo del Liverpool. Ma all'arrivo allo stadio il clima era cambiato. Mio padre stava sempre voltato a sinistra, verso i tifosi inglesi: erano fuori di testa». Roberto e Maurizio si guardano diritti negli occhi come mai prima, sulla collinetta dietro al muro alto due metri che hanno appena scavalcato. Sanguinano, feriti dal filo spinato. Sentono grida e lamenti che arrivano dal loro settore, il settore Z, quello dei 39 morti schiacciati, soffocati, calpestati. Oltre quel muro, il loro confine tra la vita e la morte, lo spettacolo va avanti. Ci sono le parole di Scirea all'altoparlante, il fallo su Boniek fuori area, l'esultanza di Platini dopo il rigore e il giro di campo con la coppa dalle Grandi Orecchie. Ma babbo e figlio non li vedono dai gradoni logori e friabili dell'Heysel. «Tra sirene di ambulanze e cariche della polizia ricorda Maggi cercammo i nostri compagni di viaggio e un telefono per tranquillizzare i parenti. Poi siamo tornati in albergo sgomenti, senza preoccuparci della finale in corso». Tra quelli che viaggiavano con loro da Arezzo due non si salvarono. Roberto Lorentini, medico di 31 anni aveva schivato la prima carica. Tornò indietro per tentare la respirazione artificiale ad Andrea Casula, la vittima più giovane di quella carneficina, 11 anni, ma fu ucciso da un'altra ondata hooligan. Morì anche Giuseppina Conti, 17 anni appena. «TUTTO INIZIÒ con un rumore assordante. Aveva ceduto la rete tra i due settori ricorda i tifosi della Juve scappavano verso di noi in preda al panico. Volava di tutto, bottiglie, calcinacci, mattoni. Chi inciampava era perduto». «Noi ci siamo salvati solo perché io, senza pensarci, sono scappato verso l'alto invece di andare giù verso il terreno di gioco dove c'erano i cancelli e la via d'uscita più diretta riflette Maurizio Maggi invece lì si concentrò la calca, la polizia manganellava, venne giù il muro. Solo grazie alla forza della disperazione riuscimmo a scavalcare, arrampicandoci su un vespasiano. Ho visto tante persone travolte. Mio padre aveva i mocassini e non si è mai spiegato come possa aver fatto a seguirmi di là dal muro...». Quella notte, la notte in cui l'innocente magia del calcio si spense, rimarrà sempre sospesa tra i pensieri di Maurizio: «Per qualche anno non sopportavo gli spazi chiusi, in mezzo alla folla non ero a mio agio. Ora, col tempo, tutto è passato per fortuna». Trent'anni cancellano le paure ma non quel delirio al tramonto che ci fece sentire vuoti, sfiniti e perduti di fronte a una partita di calcio. Trentanove volte di più.