Martedì 23 Aprile 2024

David, il profeta apocalittico. Cinque giorni con Foster Wallace

In Italia il film che ricorda il genio di “Infinite Jest”, suicida a 46 anni

Una scena del film "The end of the tour"

Una scena del film "The end of the tour"

Roma, 8 febbario 2016 - Uscirà nei cinema italiani l’11 febbraio The End of the Tour, il fim di James Ponsoldt che racconta i cinque giorni di intervista tra il giornalista di “Rolling Stone” David Lipsky (interpretato da Jesse Eisenberg) e lo scrittore David Foster Wallace (interpretato da Jason Segel), a seguito della pubblicazione nel 1996 del rivoluzionario romanzo di Wallace “Infinite Jest”. L’intervista-soggetto del film non fu mai pubblicata, e le cassette audio su cui vennero impressi quei cinque giorni, finirono nello scantinato di Lipsky. I due non si incontrarono più. Solo dopo il suicidio di David Foster Wallace, nel 2008, Lipsky pubblicò il libro sull’incontro, uscito in Italia col titolo “Come diventare se stessi”.

È morto David Foster Wallace. Tredici settembre 2008, un giorno di ritardo rispetto all’avvenuto suicidio a Claremont, California, di fronte solo campi e colline. Lungo piano sequenza nella provincia italiana. Come è possibile che la morte di uno scrittore possa sconvolgere qualcuno a migliaia e migliaia di chilometri di distanza? È la stessa sensazione di rivivere ciò che si è già vissuto quattordici anni prima, quando con qualche giorno di ritardo, arrivò da Seattle la notizia che Kurt Cobain era morto. David Foster Wallace era nato a Ithaca, New York, il 21 febbraio 1962. Il sincero struggimento di fronte alla sua perdita – si è impiccato a 46 anni – è qualcosa di più di un culto che si fa cieca fede. E non c’entra la dinamica violenta della morte: suicidio, proprio come Cobain. Foster Wallace continua a essere un fenomeno di culto perché leggendolo (pur con innegabile fatica, basti pensare alle 1.400 pagine nella versione italiana di “Infinite Jest”), uno trova in lui una completa aderenza con la realtà che gli sta di fronte. Tanto più, ora, le sue prime opere: il romanzo “La scopa del sistema” (1987), i racconti della “Ragazza con i capelli strani” (1990) o “Brevi interviste con uomini schifosi” (1999), fino ai saggi di “Considera l’aragosta” (2006).

LA SCRITTURA che appare uno più contorti flussi di coscienza ha portato in molti a parlare della destrutturazione del romanzo e perfino dello scrittore. In realtà ha ragione la sorella di Foster Wallace, quando dice che suo fratello sembrava “solo” uno appena sbarcato da una navicella spaziale. Uno che nella sua (il)logica narrazione era riuscito a raccontare da apocalittico meglio di noi integrati quello che stavamo vivendo. Uno che, nel suo essere solitario, nel rinchiudersi nella sua stanza, era ben più radicato di quello che potesse sembrare nel contesto storico-sociale-sportivo in cui viveva. E che infine riusciva a vedere in anticipo quello che gli altri avrebbero visto solo con anni di distanza. Dall’esempio più banale del “teleputer”, citato in “Infinite Jest”, elettrodomestico che racchiudeva in sé computer, tv e telefono cellulare, a quello ben più concreto del tennis di Federer. Esperienza religiosa da sfiorare il misticismo. Quando Foster Wallace lo disse, parlando dei “Federer moments”, scrivendoci sopra un saggio, non si sbagliava. E infatti Federer, nonostante l’età, continua a giocare, non sempre riesce a vincere, ma è giustamente venerato per quell’idea di tennis in cui la tecnica deve prevalere sui muscoli, altrimenti addio spettacolo.

LE DIFFICOLTÀ nei rapporti interpersonali, le droghe, il ruolo sempre più importante del mondo dello spettacolo dei media e dell’intrattenimento, l’esasperata competizione sociale: c’era già tutto in “Infinite Jest” che ora ha appena compiuto vent’anni. E tra pochi giorni arriva nelle sale italiane “The End of the Tour”, il film tratto dal libro, uscito in Italia nel 2011 per Minimum Fax, “Come diventare se stessi”. La prima vera occasione in cui Foster Wallace si raccontò, lasciando intravedere anche i suoi lati oscuri. Una confessione frutto di un tour lungo cinque giorni con David Lipsky, giornalista di “Rolling Stone”, in giro per gli Stati Uniti, parlando di politica, letteratura, cinema, dipendenze e depressione. Per molti, la conoscenza di Foster Wallace è diventata devozione. Per la capacità che ebbe di raccontare gli Stati Uniti da posizioni irregolari, in un determinato momento storico di forte mutazione – indecifrabile per i più – non limitandosi a mettere in scena quel presente, ma provando a vedere quello che sarebbe successo più avanti nella trasformazione. Azzardando un paragone con il rock dei Radiohead, Foster Wallace è “Kid A”, il disco che nel suo incedere tumultuoso e straniante, e non solo per la capacità di osare, quando apparve nel 2000 era più avanti di tutto fino ad allora. Proprio come David.