Papa Francesco in Birmania. Vietato dire la parola "Rohingya"

I vescovi del Myanmar gli hanno chiesto di non pronunciarla

Papa Francesco in Myanmar (Afp)

Papa Francesco in Myanmar (Afp)

Yangon, 27 novembre 2017 - E' arrivato in Birmania Papa Francesco. Atterrato oggi dopo 10 ore di volo, il Pontefice viaggerà tra Myanmar e Bangladesh fino al 2 dicembre. (Papa Francesco in Birmania, il programma della visita). Una visita apostolica che ha un significato particolare in un momento delicato per il Paese asiatico. Da fine agosto, infatti, l'esodo dei profughi Rohingya, di etnia musulmana, verso il Bangladesh - 622mila secondo l'Unhcr (Alto commissariato Onu per i rifugiati), che vanno ad aggiungersi ai 160mila già presenti - ha causato una tragedia umanitaria. Ai Rohingya, in Myanmar, non viene riconosciuto il diritto di cittadinanza. Secondo l'Onu quella in atto nei loro confronti è una vera e propria "pulizia etnica". Una situazione delicatissima, tanto che i vescovi della Birmania che hanno chiesto a Francesco di non pronunciare la parola "Rohingya" durante la sua visita. C'è attesa per capire se il Papa rispetterà o meno questo divieto. Il pontefice ha più volte manifestato l'attenzione verso questi profughi, lanciando appelli a più riprese. Dopo aver lasciato il Myanmar, ne incontrerà un gruppo a Dacca, in Bangladesh. Ieri il portavoce della Santa Sede, Greg Burke ha precisato, rispondendo a una domanda dei giornalisti che "Rohingya non è una parola proibita in Vaticano". E ha proseguito: "La chiesa prende questo consiglio sul serio", aggiungendo che "poi però se lo dirà o meno lo scopriremo insieme". La storia della Chiesa cattolica in Myanmar è travagliata. E' sopravvissuta come istituzione nel corso del mezzo secolo di isolamento, imposto a partire dal colpo di Stato del 1962, guidato dal generale Ne Win, nonostante la confisca delle strutture educative e sanitarie e l'espulsione dei militari.

image

LA VICENDA ROHINGYA - La tragedia della minoranza musulmana in Myanmare ha anche minato la reputazione del Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi: fedele alla linea adottata negli anni della giunta militare, la "Lady" sostiene che i Rohingya non siano una minoranza etnica birmana, bensì immigrati bengalesi. Viceversa affermano dal vicino Bangladesh. Ciò non toglie che Naypyidaw e Dacca la settimana scorsa abbiano raggiunto un accordo per rimpatriare i profughi. Accettati però solo quelli che sapranno dimostrare di aver davvero vissuto in Myanmar, elemento tutt'altro che scontato, dal momento che dagli anni Ottanta è stata negata loro la cittadinanza e quindi la maggior parte non possiede un documento di identità.

Per risolvere la complicata vicenda, oltre al Vaticano, si sono mossi anche l'Unione Europea - con la visita dell'Alto Rappresentante per la politica estera Federica Mogherini - e gli Stati Uniti, con l'intervento del segretario di Stato Usa Rex Tillerson.  L'Unhcr ha calcolato che per affrontare tutti bisogni dei profughi nel gigantesco campo di Cox's Bazar - dove manca tutto, dal cibo agli alloggi, fino alle strutture igienico-sanitarie - servono 83.7 milioni di dollari.