La pelle del premier

ALLE 7,30 del mattino il tassista romano ascolta distrattamente la rassegna stampa radiofonica. Sente che tutti i giornali si occupano della Direzione del Pd. Sente che Bersani e compagni hanno rotto con Renzi a causa della legge elettorale. Sente che Renzi se ne duole. E sbotta: «Aho, quelli non mollano. Lo vonno morto, a Renzi. E te credo: li ha presi a schiaffi e mò se vonno vendica’. Sai che gliene frega della legge elettorale...». Saggezza popolare. È dunque questo il senso che la pancia del Paese attribuisce alla sceneggiata democratica: questioni personali, lotta per l’egemonia. La legge elettorale come un pretesto. Il “metodo democratico” tanto invocato, poi, è nient’altro che una figura retorica. Massimo D’Alema in Direzione non ci ha messo neanche piede. Pierluigi Bersani c’era, ma ha taciuto. L’intenzione di votare No al referendum l’aveva annunciata il giorno prima non alla base né al vertice del partito, ma al giornalone della borghesia italiana. Una fretta dovuta forse al fatto che, come dicono i compagni del No, «la democrazia è in pericolo». E quando la democrazia è in pericolo non si perde tempo nelle assise di partito. 

MA dev’essere davvero in pericolo, questa nostra povera democrazia. Viceversa non si spiegherebbero tanti cambiamenti d’opinione. Ora Bersani dice che le elezioni devono fotografare le diverse sensibilità politiche esistenti del Paese, dunque pende per una legge elettorale di tipo proporzionale. Ma fino a ieri era per un sistema maggioritario che facesse strame dei partitini. Poi venne Veltroni e teorizzò il «partito a vocazione maggioritaria», e non per questo Bersani o altri gridarono al golpe. Evidentemente, allora la democrazia era ancora in buona salute. Ora Bersani dice che il doppio incarico di premier e segretario del Pd determina un’insopportabile concentrazione di potere. Ma fu proprio D’Alema, dopo aver dato il benservito a Prodi, a insistere perché il diritto-dovere al doppio incarico fosse scritto nero su bianco nello statuto del partito. Cosa che in effetti avvenne. E quando, nel 2013, Bersani traccheggiava tentando di formare un governo mai lo si sentì dire che in caso di successo avrebbe mollato la segreteria del Pd. Ma allora, evidentemente, la democrazia non era in pericolo.

 

ORA BERSANI rivendica il diritto di votare contro la riforma costituzionale senza per questo dover lasciare il partito. Bizzarra pretesa, come se la riforma del Senato fosse materia eticamente sensibile, come se da quel voto non dipendesse il futuro del governo. Governo incidentalmente guidato dal segretario del partito di Bersani. Le idee possono cambiare, certo. Ma questa storia dei nobili ideali da coltivare e della democrazia minacciata da salvare fa acqua da tutte le parti. Diciamo la verità: la minoranza del Pd sta lavorando per riprendersi il partito grazie alla sconfitta di Renzi al referendum o, in caso di vittoria, per dar forma a un sistema politico funzionale alla nascita di un nuovo soggetto di sinistra. Il loro problema è Matteo Renzi, e si può capirli. Il loro programma è quello brutalmente sintetizzato dal tassista romano: «Lo vonno morto».