Mercoledì 24 Aprile 2024

Il mito dell'Ulivo

Roma, 18 giugno 2017 - Ormai preda del surrealismo più spinto, le sinistre si abbandonano all’ulivomania. Giuliano Pisapia ha assimilato il suo Campo progressista a «un nuovo Ulivo». Andrea Orlando si è presentato alle primarie del Pd forte di 1996 firme, così evocando l’anno di nascita dell’Ulivo. Pier Luigi Bersani ha detto di pensare a «un Ulivo 4.0». Militanti dem hanno agitato provocatoriamente sotto il naso di Matteo Renzi ramoscelli di ulivo, mentre il grafico Andrea Rauch, che quel ramoscello stilizzò per il simbolo del Pd, gli ha intimato di rimuoverlo. Considerando che la Prima repubblica ha vissuto per quasi cinquant’anni nel “mito della Resistenza”, non è strano che la Terza si crogioli nel mito dell’Ulivo. Ma si tratta, appunto, di miti: narrazioni fantastiche, favole, leggende. Espedienti retorici tesi a sublimare le frustrazioni del presente dilatando a dismisura i confini naturali di una presunta età dell’oro passata. Così come la Seconda guerra mondiale non è stata vinta grazie al pur lodevole impegno dei partigiani, non è stato l’Ulivo a portare alla vittoria il centrosinistra e tantomeno a consentirgli di governare.

L’ULIVO fu una geniale trovata di marketing politico che permise a Romano Prodi di svolgere a sinistra il ruolo di federatore che Silvio Berlusconi svolgeva a destra, nascondendo dietro a quell’originale riferimento botanico la vera debolezza del Professore: la mancanza di un partito di appartenenza. Un gioco da illusionisti, poiché l’Ulivo tutto era fuorché un partito e poiché senza il patto di desistenza con la Rifondazione comunista di Armando Cossutta mai sarebbe stato pensabile che potesse vincere le elezioni. Nel ‘96 in effetti vinse, ma solo perché la Lega di Bossi aveva rotto con Forza Italia e correva da sola, così come fece la Fiamma tricolore di Rauti. Alla Camera, il centrodestra prese il 51,3% dei voti, il centrosinistra il 44,9%. Senza Bossi e Rauti, al governo sarebbe andato Berlusconi. Ci andò Prodi, invece, e dopo appena due anni fu disarcionato dal leader del maggiore partito di cui il mitico Ulivo si componeva, Massimo D’Alema. Non occorre rivangare la grottesca esperienza politica del 2006, l’Ulivo calato nell’Unione, l’Unione composta da 14 partiti alla Camera e 20 al Senato, il programma di governo lungo 281 pagine e la vittoria alle elezioni consentita solo dalla demenziale operazione ordita dell’allora finiano Mirko Tremaglia col voto degli italiani all’estero. Non occorre, sarebbe troppo. È qui sufficiente ricordare i fatti del ‘96-‘98 per concludere che l’Ulivo non fu quel modello vincente, quell’esperienza di successo di cui oggi tutti, persino D’Alema, si fregiano. Fu un escamotage politico, una trovata mediatica. Ma dopo due anni l’Ulivo prodiano era già secco: buono sì e no per un falò in spiaggia. Un falò delle vanità. Riproporlo dopo oltre un ventennio è più che una forzatura, è un falso storico. Un mito, appunto. E il primo a saperlo è il suo fondatore: Romano Prodi.