Il mafioso che è in noi

Tutto molto interessante: la storia criminale di Totò Rina, il passato della mafia, il presente della mafia, il futuro della mafia. Manca però qualcosa negli articoli e soprattutto nei commenti pubblicati ieri dai giornali in occasione della morte del boss di Corleone. Manca il contesto, la spiegazione del perché la mafia ha potuto metter radici. Il brigatista Mario Moretti spiegò che la forza delle Br stava non tanto nella loro capacità di fuoco, quanto nella loro capacità di “influenza”. In quello che fu definitivo “brodo di coltura”, negli oltre 600mila italiani che, secondo l’intelligence americana, fiancheggiavano le Brigate rosse e nei tanti che ne condividevano le motivazioni per così dire politiche. Sosteneva l’ex capo dello Stato Francesco Cossiga che «il potere mafioso, quello camorrista e quello ‘ndranghetista non ci sono estranei: sono espressione del carattere della gente cui si rivolgono e corrispondono a un sentimento radicato in alcuni popoli italiani». Lo spiegava con le tante dominazioni straniere subite. Le mafie italiane non sono, infatti, solo un fenomeno criminale. Sono un fenomeno politico.

Uno Stato nello Stato legittimato da un consenso popolare diffuso che sarebbe riduttivo attribuire solo alla paura. È sgradevole dirlo, ma lo spirito mafioso appartiene al nostro carattere nazionale. Le mafie sono dei contropoteri che un tempo resistevano al sovrano straniero e che poi si sono incistati nella carne e nello spirito dello Stato unitario. Hanno perciò trovato terreno fertile. Per ragioni storiche, infatti, l’individuo, la legge e il merito da noi contano poco. Contano più le appartenenze, le corporazioni, le lobby, i clan. Negli anni Sessanta fece discutere l’inchiesta svolta nel Belpaese dal sociologo americano Edward C. Banfield. Discutere e indignare, poiché riassumeva il carattere nazionale italiano nell’etichetta “familismo amorale”.

Quel “ho famiglia” che secondo Leo Longanesi andava impresso sul Tricolore come motto dell’Italia più profonda e vera contribuisce a spiegare non solo la genesi del fenomeno mafioso (“famiglia”, non a caso, nel lessico italiano è sinonimo di mafia) ma anche la nostra naturale lontananza dai valori liberali. Poi, certo, la mafia è anche potere, e sul potere mafioso si sono costruite carriere e cementati interessi. Torna alla mente un passaggio dei diari di Indro Montanelli. Alla data 25 ottobre 1966 si legge: “Castiello (capo della segreteria del presidente democristiano del Senato Cesare Merzagora, ndr) mi dice che nella relazione segreta della Commissione antimafia del Senato ci sono cose da rabbrividire: tra l’altro la prova che un deputato liberale ha fatto liquidare a lupara un suo avversario. ‘E ora’, chiedo, ‘che ne faranno di tutta questa roba?’. ‘Quello che ne hanno sempre fatto. L’affideranno a un Ferrarotti qualunque che la tradurrà in sociologia. La mafia, quando diventa un fatto di infrastrutture, cessa di allarmare e di indignare...’”.

Totò Rina è morto, la mafia intesa come sistema di potere e “infrastrutture” dicono non sia più forte come un tempo, ma lo spirito mafioso grazie al quale ha potuto radicarsi vive e lotta insieme a noi. Ce lo portiamo dentro, purtroppo.