Giovedì 25 Aprile 2024

Un errore la globalizzazione sfrenata. Ricolfi: "L’Italia in declino da anni"

Il sociologo vede nero: Paese paralizzato dai populisti di tutti i partiti

Luca Ricolfi

Luca Ricolfi

Roma, 29 aprile 2017 - «SINISTRA e popolo». Un binomio che sembrava quasi proverbiale fino a poco tempo fa. Ma quell’accoppiata è in profonda crisi perché la sinistra tradizionale non ha saputo intercettare le trasformazioni e le storture del nuovo mondo globalizzato. E ‘Sinistra e popolo’ è il titolo dell’ultimo libro del sociologo Luca Ricolfi, che affronta proprio questa crisi, nella quale alcuni Paesi hanno pagato più di altri.

Professore, in questo contesto quali rischi corre l’Italia?

«Mi sembra ottimistico parlare di rischi: un rischio è qualcosa che potrebbe accaderti in futuro, a noi invece è già accaduto (quasi) tutto. Siamo all’ultimo posto in Europa in termini di crescita del Pil, la produttività del lavoro è ferma da vent’anni, il tasso di occupazione è fra i più bassi d’Europa (solo Grecia e Turchia stanno peggio di noi). Più che rischi, vedo la semplice continuazione di un declino in corso dalla metà degli anni Novanta».

Tra i primi a pagare gli effetti perversi della globalizzazione ci sono i partiti tradizionali, a destra e sinistra... Emergono movimenti liberali o centristi, oppure si rafforzano populisti e candidati massimalisti. E la situazione italiana?

«L’Italia è l’unico Paese d’Europa in cui il 95% dell’offerta politica è populista. Populisti sono Lega, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia. Ma populisti, a loro modo, sono anche i partiti di Renzi e Berlusconi, perché populista ed euroscettica è la loro diagnosi dei mali del Paese: dare la colpa dei nostri guai alla signora Merkel e alle regole europee è la strada più sicura per restare intrappolati per sempre nel pantano in cui noi stessi ci siamo cacciati».

Quindici anni fa, con l’ingresso della Cina nella Wto, la globalizzazione sembrava inarrestabile. È stato davvero così?

«È stato così e probabilmente continuerà a essere così. Quando si parla di globalizzazione e di circolazione mondiale, si deve tenere presente che i tipi di cose che circolano sono quattro: merci, persone, capitali, segni. Si può mettere qualche freno alla circolazione delle merci e delle persone, ma è molto difficile farlo con i capitali, ed è praticamente impossibile bloccare la circolazione dei segni: immagini, testi, programmi, software continueranno a viaggiare indisturbati attraverso radio e Tv, i cellulari, Internet».

Che cosa non ha funzionato allora?

«Quello che è andato in modo non previsto non è la globalizzazione, ma sono i suoi effetti. Quasi tutti, nel ventennio seguito alla caduta del muro di Berlino, erano convinti del carattere benefico della globalizzazione; oggi quella convinzione ha lasciato il posto a scetticismo, paura, disillusione».

L’elezione di Trump negli Usa e la scelta della Brexit in Gran Bretagna sembrano riportare indietro le lancette... Soffia il vento del neo protezionismo?

«Certo, specie negli Stati Uniti e nel Regno Unito la tentazione protezionista è molto forte: la de-industrializzazione ha condotto a pensare che la concorrenza abbia fatto più bene alle economie arretrate che a quelle avanzate». 

Non è paradossale che i campioni del liberismo si chiudano economicamente e politicamente, mentre la Cina diventa il nuovo difensore della globalizzazione?

«È paradossale, ma meno strano di quel che sembra. Aprirsi alla concorrenza, così velocemente e senza rete, è stata un’ingenuità dei Paesi avanzati. La concorrenza, che in condizioni normali promuove la prosperità, può essere distruttiva se le autorità che regolano il mercato non assicurano un minimo di condizioni comuni ai competitori. Se si consentono la contraffazione dei marchi, il pirataggio del software, lo sfruttamento intensivo della manodopera, il dumping salariale, regimi fiscali iper favorevoli fondati sul contenimento del welfare, allora la concorrenza diventa sleale. E chi rispetta le regole rischia di soccombere».

Ma non si rischia di drogare il mercato anche con dottrine economiche fatte quasi solo di drastici tagli delle tasse, come l’ultima di Trump?

«Il rischio c’è. Ma è curioso che di concorrenza sleale si parli quando ad attuarla è Trump, mentre per vent’anni si è ignorata quella dei Paesi dell’Est, delle economie arretrate, o di alcuni Paesi avanzati dotati di regimi fiscali estremamente generosi, come l’Irlanda».

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