Venerdì 19 Aprile 2024

I giudici: Riina deve restare in carcere. "Non mi pento neanche tra 3.000 anni"

La telefonata alla moglie Antonietta Bagarella. Per il Tribunale è "lucido e pericoloso"

Salvatore Totò Riina tra due carabinieri dopo l'arresto del 15 gennaio del 1993 (Ansa)

Salvatore Totò Riina tra due carabinieri dopo l'arresto del 15 gennaio del 1993 (Ansa)

Roma, 20 luglio 2017 - «Io non mi pento... non mi piegheranno. Non voglio chiedere niente a nessuno. Mi posso fare anche 3000 anni, no 30». Parole di Salvatore Riina rivolto alla moglie Antonietta Bagarella, in un colloquio video-registrato nel carcere di Parma dello scorso 27 febbraio. Parole che i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Bologna hanno preso molto sul serio, tenendo ben chiusa la porta che i difensori di Totò da Corleone volevano aprire chiedendo il trasferimento del loro cliente in un luogo di cura esterno o agli arresti domiciliari, sia pure vigilato, e il superamento per il boss anziano e malato del regime di detenzione regolato dall’articolo 41 bis della normativa penitenziaria, cioè il carcere duro. «Riina rimane in ospedale, ma è un’ordinanza ampiamente ricorribile, e come tale sarà oggetto di ricorso», ha commentato il difensore di fiducia, l’avvocato Luca Cianfaroni. E nel giorno il cui cadeva il 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio, di cui il «padrino» è considerato mandante, da Palermo arriva un secondo colpo: i carabinieri del Ros hanno sequestrato aziende, immobili e conti correnti per un milione e mezzo di euro, compresa la villa dove la famiglia di Riina trascorse gli anni della lunga latitanza del super ricercato. Riina, si legge nell’ordinanza che ha respinto la richiesta della difesa, appare «ancora in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra», nonostante le sue condizioni di salute e l’età avanzata. Va quindi «ritenuta l’attualità della sua pericolosità sociale».

«La lucidità palesata» da Riina e «la tipologia dei delitti commessi in passato (di cui è stato spesso il mandante e non l’esecutore materiale) – proseguono i giudici – fanno sì non si possa ritenere che le condizioni siano tali da ridurre del tutto il pericolo che possa commettere ulteriori gravi delitti (anche della stessa indole di quelli per cui è stato condannato)». Riina, scrive il collegio, «non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero». È «palese», a Parma, «l’assoluta tutela del diritto alla salute sia fisica che psichica del detenuto». E questo «a fronte di idonea sistemazione, da oltre un anno e mezzo, nel reparto detentivo ospedaliero ossia in stanza dotata di tutti i presidi medici e assistenziali necessari alla cura di una persona anziana», affetta da varie patologie, che secondo la relazione medica citata dalla difesa potrebbero ogni giorno compromettere la sua vita. Riina, ricorda il Tribunale, «viene assistito giornalmente da un fisioterapista» e «dispone quotidianamente, senza necessità di spostamenti, di un importante intervento assistenziale espressamente finalizzato al mantenimento della residua funzionalità muscolare».

Il tribunale affronta quindi il tema del diritto a morire dignitosamente «al pari di qualsiasi altra persona in analoghe condizioni fisiche», cioè il tema indicato dalla Cassazione quando sollecitò un nuovo esame del caso. Per i giudici di Bologna deve intendersi come «il diritto a morire in condizioni di rispettabilità e decoro» e la situazione in cui si trova Riina a Parma non costituisce «una prova di intensità superiore all’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione».