Un'Italia da rifare

C’È LA CONTA dei morti, che non ha prezzo. E c’è quella dei danni che invece aggiunge rabbia al dolore per le vittime. Rabbia per le scelte irrazionali e poco pragmatiche che hanno da sempre distinto l’Italia. Nessuno può pensare di trasformare l’Italia nella California, o nel Giappone dove neanche quattro mesi una scossa di magnituto 7, il livello massimo della scala nipponica, ha provocato “solo” una decina di morti oltre, naturalmente, a un piccolo esercito di sfollati. Ma al di lá degli esempi eccellenti, sono troppi i conti che non tornano in un Paese dove le cittá sono quasi tutte costruite in zona sismica. Una mappa che puntualmente viene riscoperta dopo ogni grande evento catastrofico e che, altrettanto puntualmente, diventa oggetto di una rimozione collettiva. Soprattutto politica. Eppure basterebbe mettere in fila pochi numeri per trasformare la prevenzione non solo in un obbligo etico e politico nei confronti dei cittadini ma anche in un buon affare per l’economia. Evitando nel prossimo futuro le immagini di morte e distruzione come quelle viste ieri nell’Italia centrale.

NEGLI ultimi quarantasei anni abbiamo speso 180 miliardi di euro per ricostruire le aree distrutte dai terremoti, circa 4 miliardi all’anno. Un costo enorme, più o meno lo 0,25% del Pil. E, dal momento che gli eventi catastrofici si ripetono, in media, ogni 5-7 anni, è più che lecito pensare che la contabilitá dei danni (e dei morti) sia destinata ad aumentare.

Eppure, secondo i calcoli dell’istituto di Geofisica e della Protezione civile, per mettere in sicurezza il patrimonio immobiliare e le infrastrutture pubbliche e strategiche servirebbero circa 100 miliardi di euro, vale a dire il 60% di quello che l’Italia ha speso per ricostruire le cittá distrutte dagli eventi sismici dal 1968 ad oggi.

MA NON BASTA. La prevenzione potrebbe essere un formidabile volano di occupazione e di crescita economica anche se si spalmasse la cifra necessaria per metterci al riparo dai terremoti in un piano decennale o ventennale. È la strada imboccata, da tempo, non solo in California e Giappone ma anche in Nuova Zelanda. O, nella piu’ vicina, e non meno sismica, Turchia. Se decidessimo, infatti, di investire 10 miliardi di euro ogni anno per rendere più sicure le nostre case, anche quelle dei centri storici o dei borghi medievali, potremmo crare 200mila posti di lavoro ed avere un effetto positivo sul Pil di circa un punto percentuale ogni dodici mesi. Una boccata d’ossigeno non solo per il settore delle costruzioni e delle piccole e medie imprese ma per l’intero Paese tornato, nel secondo trimestre di quest’anno, alla crescita zero.

Ma dove trovare le risorse che servono? Tanto per cominciare si dovrebbe usare la leva fiscale, per coinvolgere capitali privati. Lo hanno giá fatto con successo gli altri Paesi. Da noi il «bonus» destinato alla prevenzione non è mai decollato. Ma si potrebbe anche, più semplicemente, tirare fuori gli investimenti dal patto di stabilità. Senza alcun effetto sul deficit.

UNA PROPOSTA di legge in tal senso è ferma, però, da due anni in Parlamento. Basterebbe approvarla, aprendo subito dopo un confronto con Bruxelles. Evitando una volta tanto di rimuovere il problema del rischio sismico dall’agenda della politica. In attesa del prossimo terremoto. E della prossima contabilitá di vite spezzate e case distrutte.