Mercoledì 24 Aprile 2024

Rigopiano, Mauro Corona: guai a chi sfida la natura

Il racconto per QN. "Valanga! E un ruggito sfiorò le case"

Mauro Corona

Mauro Corona

Roma, 24 gennaio 2017 - CAPITÒ d’inverno e non poteva essere che così. Era gennaio, verso il 15. Nevicò per cinque giorni e cinque notti, tutto fu sepolto. Appena appena si vedeva il fumo dei camini uscire a stento dai tetti. Lentamente, come se forare il muro bianco durasse un’immane fatica. La pressione lo disperdeva, usciva orizzontale. Il tepore del fumo cercava di farsi spazio nello stesso manto di neve. Un po’ alla volta, come un minatore che emerge dal cunicolo a respirare. Tre secoli prima, quando nevicò cinque giorni e cinque notti, tutto stava sepolto sotto il silenzio e la paura. Dopo trecento anni la cosa si ripeteva.

Gli uomini intuirono pericolo e si domandarono: «Il paese sarà al sicuro?». Non si udiva alcun rumore, nemmeno il «pit» di un ciuffolotto, né il verso della martora o l’abbaio del capriolo. Pareva che lassù, allo sbocco della valle, non ci fosse più vita. Gli uomini vennero presi dai dubbi. «Se si stacca la valanga stavolta potrebbe arrivare alle case».

«No», disse uno, «il paese sta più avanti allo sfogo delle valanghe».

«Speriamo», aggiunse un altro. E ancora: «I nostri antenati costruivano le abitazioni fuori tiro da ogni pericolo. Solo il vento poteva fare danni. Quello arriva ovunque. O carezza o raspa o strappa via i tetti».

A MEZZOGIORNO sentirono qualcosa. Il cielo vomitò una specie di ruggito, la montagna tremò. sussultò, come si fosse spaccata in due. E in un certo modo era così.

Dopo tutta quella neve la montagna era diventata doppia: quella sotto, di roccia, boschi e pendii. Quella che la copriva, fatta di neve. Alta da perderci la vista a cercarne la fine.

Fu il silenzio a muoversi per primo. La montagna si aprì come un sacco di farina tagliato dal rasoio e si versò sul paese. Era partita la valanga.

Rotolò veloce. Scivolò da un punto lassù, molto alto e ripido. Le valanghe che raspano i pendii partono sempre dall’alto e dal ripido e si incanalano nei valloni. Hanno una loro strada, un percorso che seguono da millenni, preciso e perfetto. La gente non ci badò. Era abituata ai bramiti improvvisi delle valanghe che rimbombavano nelle valli e nelle orecchie ad ogni nevicata.

Udirono nitida la crepa di suono che tagliò il cielo da una parte all’altra. Ma non si allertarono. Sapevano che le lingue bianche dal vertice dei monti correvano giù a leccare i dintorni del paese, senza baciarlo. Si fermavano prima, appena sopra. Presidiavano lo sbocco della valle, dove sul fondo, a debita distanza, pulsava il cuore antico del villaggio.

A fine corsa le valanghe lo circondavano come le dita aperte di una mano, senza fargli male. Non stringevano il pugno a stritolare. Mai si erano scagliate sul paese le valanghe delle montagne intorno. Le più grosse allargavano le braccia per sradicare e trascinare in fondo alberi di ogni tipo.

A primavera uomini e donne s’affrettavano a raccoglierli. Era legna buona. Anche quella volta fu così. Dopo il boato gli abitanti uscirono all’aperto per guardare la locomotiva bianca che stava arrivando.

SPUNTÒ prima il muso, un ghigno deformato dalla corsa, alto dieci metri e con la bocca aperta. La massa in movimento raspò i terreni congelati, che usciorono dal fondo nudi e lucenti, come quando di notte li illumina la luna.

Il paese ondeggiava spintonato dal vento bianco della slavina. Le persone osservavano attonite, respiravano a stento, la polvere di neve entrava loro nelle narici. La valanga seguitava a rombare.

Finalmente, dopo un tempo che non si può definire, passò l’ultimo vagone di quel treno bianco. Era pieno di alberi spaccati, zolle sporche e rocce frantumate. Il grande tuono finì. Dalla vetta del monte calò un silenzio che si poteva vedere. Anche nei volti delle persone lo si notava. Il canalone appariva disossato e lustro, bianco e nudo.

In alto e in basso tutto era rotto, spaccato, sradicato, divelto, cavato via e sminuzzato. La polvere, dopo aver mulinato nell’aria, cominciò a scendere. Si depositava sul paese e sulle ciglia degli abitanti usciti a vedere. Nessuno si disperò, alterò la voce o lamentò qualcosa.

NEI LORO CUORI non esisteva il lamento. Sapevano che la montagna scarica le valanghe quando non ne può più. Molti secoli prima, i loro avi impiantarono il paese come una scheggia di roccia ficcata in una radura. Ma ebbero accortezza e genio di porlo distante dallo sbocco della valle, e un po’ a sinistra.

Si tramandavano di nonno in figlio la memoria del percorso di ogni valanga e di ogni inverno. E costruirono un paese sicuro. Così era diventato quel villaggio: un luogo sicuro.

Dopo trecento anni, o tre secoli, se vogliamo dire, era ancora un paese sicuro. La gente si pulì la polvere di neve dagli occhi e dalle spalle, e rientrò nelle case. Senza alcun commento. Sapevano che, una volta di più, i loro avi avevano agito bene. Senza forzare la natura.