Giovedì 25 Aprile 2024

Omicidio Ravenna, Cagnoni resta in carcere. "C'è la sua firma sul sangue di lei"

Il legale del dermatologo ribatte: i graffi se li è procurati da solo Il medico aveva ceduto beni per oltre un milione

Le foto segnaletiche di Matteo Cagnoni diffuse da Quarto Grado

Le foto segnaletiche di Matteo Cagnoni diffuse da Quarto Grado

Ravenna, 16 ottobre 2016 - DEVE RESTARE in carcere perché «ha lasciato la propria firma» sul luogo del delitto. Per il Tribunale del Riesame di Bologna, non c’è nessun’altra strada percorribile per Matteo Cagnoni, il 51enne dermatologo accusato di avere ucciso a bastonate in testa la moglie, la 39enne Giulia Ballestri, all’interno di una loro villa disabitata di Ravenna. Un delitto compiuto la mattina del 16 settembre scorso per il quale – secondo l’ordinanza dei giudici bolognesi – gli elementi raccolti sin qui dall’accusa sono suddivisibili in tre parti, ciascuna «di per sé giustificativa di sicura prognosi di condanna».   PER CAGNONI dunque niente domiciliari con braccialetto elettronico; figurarsi quella libertà che aveva invocato dopo essersi sempre proclamato innocente. A incastralo – prosegue l’ordinanza – ci sono varie impronte lasciate sul sangue di lei. Una in particolare è della mano sinistra ed è stata isolata dalla polizia Scientifica su un frigorifero: ecco «la firma» alla quale si riferiscono i giudici. Si tratta di un’impronta lasciata da una mano insanguinata e che solo chi ha massacrato la 39enne avrebbe potuto imprimere.   DI TRAVERSO tra Cagnoni e la libertà, c’è pure un altro elemento ritenuto altrettanto forte. Perché il dermatologo dopo la mezzanotte del 18 settembre, cioè poco prima che la polizia andasse a fermarlo nella villa paterna di Firenze, ha inviato due messaggi (a una amica e alla segretaria) dimostrando di essere al corrente della morte della consorte con frasi esplicite di questo tipo: «un grosso guaio» e «una tragedia». Peccato che fino a quel momento – rilevano i magistrati – nessuno glielo avesse detto, «segno evidente e inconfutabile della sua responsabilità».   MA SE ANCHE la procura di Ravenna non avesse raccolto questi due elementi, «la dimostrazione della colpevolezza del Cagnoni» la si può raggiungere tramite una terza via che si snoda attraverso tutti gli indizi raccolti a suo carico dai pm Alessandro Mancini e Cristina D’Aniello. A partire dalla doppia fuga dalla polizia: «per un attacco di panico», si è giustificato lui esibendo peraltro escoriazioni sul volto, a suo dire frutto della corsa tra i rovi. Per l’accusa invece segni forse lasciati dalla vittima prima di soccombere.

L’INDAGATO deve fare i conti pure con l’interrogatorio fiume a cui si era sottoposto il 21 settembre davanti al gip di Firenze. In quello, lui stesso aveva ammesso di essere andato con la moglie la mattina del delitto alla villa disabitata di via Padre Genocchi, non lontano dalla stazione ferroviaria, per esaminare alcuni quadri di valore. Ma di esserne uscito assieme alla donna verso le 10 e di averla vista l’ultima volta alle 12.15 al parcheggio sotto casa. Strano però che né la postina né la collaboratrice domestica ricordino di averla vista a quell’ora. Per i giudici del Riesame la spiegazione è chiara: a quell’ora lei era già stata uccisa. E a farlo era stato il marito, «geloso e possessivo», ossessionato dal «gravissimo discredito sociale» che gli sarebbe piovuto addosso non appena si fosse saputo che la moglie voleva separarsi perché da mesi aveva un altro.