Migranti, l'accoglienza è un affare. Ecco come arrivano miliardi e voti

E' la nuova "Cassa del Mezzogiorno", sblocca fondi e dà lavoro

Migranti nel centro di prima accoglienza a Lampedusa (Ansa)

Migranti nel centro di prima accoglienza a Lampedusa (Ansa)

Roma, 21 luglio 2017 - Trentacinque euro al giorno sono pochi ma possono essere anche molti. Perché moltiplicati per i lunghi periodi di permanenza e per i 181mila migranti sbarcati in Italia nel 2016 (nel 2017 saranno ancora di più, si calcola intorno ai 200/220 mila) fanno una montagna di soldi. Quattro miliardi e 600 milioni è infatti la somma che nel 2017 il nostro Paese ha destinato all’accoglienza dei disperati che nel corso dell’anno approdano nelle coste italiane. Una cifra monstre, se paragonata a quanto spende l’Ue per fronteggiare lo stesso problema: 2,4 miliardi dal 2014 al 2020, peraltro da distribuirsi tra tutti i Paesi (all’Italia toccano 560 milioni in sei anni: briciole). Per rendersi conto dell’imponenza della cifra erogata, 4,6 miliardi sono più o meno la metà di quanto sborsa per il totale della sanità una medio-grande regione italiana come la Toscana o l’Emilia Romagna e un quarto di tutta la spesa del comparto militare italiano. Un fiume di denaro che insieme ai migranti sbarca in aree precise del nostro Paese, guarda caso aree depresse e sempre a caccia di fondi pubblici, e che spiega il motivo per cui l’Italia, a differenza di altri Paesi europei, ha accettato di accogliere prima nei suoi porti poi nelle proprie città migliaia e migliaia di persone. Un motivo semplice, vecchio come il mondo: perché qualcuno ci guadagna. Soldi o consenso. E che svela la debolezza della favola secondo cui il nostro Paese sarebbe vittima impotente di un grande fenomeno a cui non si può ribellare. Lo aveva rivelato Emma Bonino qualche giorno fa: il massiccio flusso di migranti negli ultimi anni è frutto di un accordo con l’Europa siglato dal governo Renzi/Alfano: l’uno l’ha barattato con la flessibilità, l’altro con la gestione dei centri buona parte dei quali è finita in orbita Ncd. L’affare immigrazione, che si dipana soprattutto al sud, è diventato (anche) la nuova Cassa del Mezzogiorno. Un modo per giustificare altra spesa pubblica, altrimenti bloccata dalla spending review e dai patti di stabilità interni, con la quale oliare la macchina del consenso.

I CONTORNI del business che inghiotte questi 4,6 miliardi annui sono tanto complessi quanto imponenti. I meccanismi antichi: acquisire fondi pubblici, spartirsi il lavoro, prendersi ognuno una fetta della torta in modo che non si lamenti nessuno, fare in modo che le situazioni di crisi non si risolvano subito. Ecco spiegato il motivo per cui nel tempo sono stati creati i Cara (Centri assistenza richiedenti asilo, quattordici in Italia di cui undici al sud) per la loro dimensione adatti a permanenze lunghissime, ecco spiegato come mai la logica e le normative con la quale essi vengono gestiti sono sempre quelle emergenziali, per definitizione più flessibili. Naturale che tutto il boccone sia finito sotto le attenzioni prima delle grandi firme del Terzo settore nazionale, poi della politica che ha cercato, spesso riuscendoci, di trarre vantaggio dalla gestione dei centri. Celebre il caso di Mineo: nel comune siciliano vicino Catania, alle ultime europee il partito del ministro Alfano, Ncd, ha ottenuto il 40 per cento, a fronte di una media siciliana dell’8 e nazionale del tre. Tutto normale?

LA GESTIONE dei Cara è affidata ai prefetti che a loro volta coinvolgono in larga parte il mondo del no profit. Le sigle degli enti coinvolti sono quasi sempre i big del settore, a testimonianza della rilevanza dell’affare: le Misericordie cattoliche, Sisifo vicina a Legacoop ma che associa anche coop bianche, La Cascina legata a Comunione e Liberazione, numerose Ong di varia natura. In sostanza, tutto l’«arco costituzionale». Un po’ quello che accadeva nella prima repubblica, quando in tema di cooperazione internazionale i socialisti avevano la Somalia, i comunisti l’Etiopia e i democristiani il Mozambico. Oltre a badar bene di far contenti, nel caso di Mineo, gruppi di costruttori di grande importanza nazionale, tipo Pizzarotti di Parma come ha rilevato non senza una qualche perplessità la Commissione di inchiesta della Camera dei deputati. Tutte queste sigle per esempio si misero insieme per aggiudicarsi l’appalto iniziale della gestione del Cara di Mineo, cento milioni, con un bando secondo la Commissione «sospetto», un «abito su misura», come lo definì in una audizione parlamentare il capo dell’Aurorità anticorruzione Raffaele Cantone.

(1. continua)