Malika Ayane: "Temo il razzismo più degli attentati"

L'integrazione vista dalla cantante di origine marocchina: "Un Paese cattolico non può pensare di non accogliere, ma bisognerebbe risolvere i problemi all'origine"

Malika Ayane

Malika Ayane

Milano, 25 settembre 2017 - L'intervista comincia in modo poco incoraggiante.

Buongiorno. Le ho detto che conosco suo marito?

«Il mio ex marito, vorrà dire...».

Per fortuna Malika Ayane, oltre a possedere una delle voci più belle d’Italia, è dotata di un grande senso dello humour. Mi racconta la sua famiglia da bambina?

«Vivevamo in viale Ungheria, periferia milanese, in una casa molto piccola. In estate si partiva per il Marocco, su una Golf stracarica. Verso Nizza vedevi che le auto dei marocchini diretti a casa si moltiplicavano. Eravamo muniti prima di tenda canadese e poi di roulotte per ottimizzare le risorse in un viaggio così lungo: ci mettevamo cinque giorni. La famiglia di mio padre è di Meknes. Siccome anche lì era periodo di vacanza, con i miei cugini andavamo ad Asilah, sulla costa atlantica. Credo di aver rischiato di affogare non so quante volte, anche se oggi non mi ci butterei mai perché è troppo freddo...».

Si è mai sentita emarginata?

«Emarginata, no. Ma se tua mamma lavora in una casa con piscina e sette tate per i figli, non parlerei di emarginazione, ma del fatto che con quell’ambiente lì non c’entri niente. Però non ho mai vissuto con vittimismo: sono sempre stata dell’opinione che, finché non ti va a fuoco la casa o ti viene una malattia incurabile, i problemi non esistono».

Ha mai subito razzismo?

«Sì, ma penso che anche se non sei figlio di stranieri, sei grasso. Se non sei grasso, hai gli occhiali, se non hai gli occhiali hai i brufoli... C’è sempre un motivo per essere stronzi».

Lei è impegnata con l’organizzazione Oxfam, la cui filosofia è: ‘Aiutiamoli a casa loro’.

«Sì, io dico sempre che è una Ong che fa bene ai razzisti (ride). Non sono una politica, ma in tema di immigrazione penso questo: se io sono libera di decidere di andare a vivere a Berlino o a New York, perché un ghanese non può decidere di andare a Vercelli? Non capisco perché c’è gente che vuol mandare il figlio a studiare a Los Angeles, ma poi non vuole che un sudanese venga qui».

I migranti vanno accolti? O respinti?

«Siccome siamo un paese fortemente cattolico, non possiamo pensare di ributtarli in mare. Con Oxfam ho visitato le province più interne del Marocco, dove è una fortuna trovare un forno per cuocere il pane, così come ho visto i campi dei palestinesi in Libano che vivono lì dal 1946. Non ci si può meravigliare che la gente cerchi di scappare qui da noi, bisogna risolvere il problema all’origine. In un altro ambito, sa quanti italiani ci sono a Berlino? E sa quanti lavorano pochi mesi per poi chiedere il sussidio di disoccupazione? Non è così diverso. In Siria c’è la guerra. E se la guerra ci fosse a Milano, i milanesi cosa farebbero? Ma anche accoglierli e poi lasciarli lì a far niente non va bene: li alieni».

Lei è cattolica o musulmana?

Mia madre è cattolica, mio padre musulmano, mio nonno ebreo. In famiglia abbiamo più dei che parenti. L’educazione cattolica in quanto italiana è inevitabile: il senso di colpa, di solidarietà, di condivisione è fondamentale».

C’è un altro aspetto legato all’immigrazione: il terrorismo. Cosa ne pensa?

«Gli autori degli attentati più recenti sono tutti nati qui, ma non sono riusciti a trovare una strada. Io sono più preoccupata dall’ondata razzista che dall’ondata terroristica. Per ogni attentato corrisponde un’aggressione a una persona che magari non c’entra niente. Chi non è razzista? Quando vado a Berlino a comprare le sigarette, il mio tabaccaio turco mi tratta malissimo, perché il mio tedesco è ancora disastroso».

Secondo un sondaggio pubblicato dal Quotidiano Nazionale, il 32% degli islamici è favorevole al fatto che le donne non debbano studiare e il 45% è contrario alla possibilità che le figlie si vestano come i ragazzi italiani. Visti i risultati, non pensa che la visione della donna nell’Islam sia profondamente e forse irreparabilmente diversa rispetto a quella Occidentale?

«La condizione della donna é purtroppo complicata a prescindere. Ho letto articoli in cui si confrontavano la ricostruzione dell’imene con la mastoplastica e la mercificazione del corpo femminile nelle campagne pubblicitarie a sottolineare come sia difficile stabilire dove la donna possa definirsi definitivamente libera. Per fortuna conosco donne musulmane che lavorano, si dedicano alla famiglia e si divertono, ma anche donne cattoliche con il seno rifatto che parlano quattro lingue e occupano posizioni prestigiose. Ho letto su Twitter una frase che Golda Meir disse dopo una serie di stupri brutali in Israele, in seguito ai quali era stato proposto il coprifuoco per le donne: ‘Sono gli uomini che attaccano le donne. Se c’è un coprifuoco, che stiano a casa gli uomini’».

Però a volte la cronaca riporta di padri musulmani che picchiano le figlie perché vogliono uscire in jeans.

Così come ci sono le notizie di ragazzi italiani che ammazzano le fidanzate a sassate, e non capita solo nei ceti sociali più difficili. Concentrare sull’altro quello che fa paura è un modo per affrontare cose che non si riescono a risolvere».

Dallo stesso sondaggio, condotto dall’Istituto Ipr, risulta che ben il 31% degli interpellati dichiara ‘Non mi sento integrato e non voglio integrarmi’ e il 37% si dice d’accordo con l’affermazione ‘L’Islam deve conquistare tutte le nazioni occidentali’. Alla luce di questo risultato, secondo lei è davvero possibile la costruzione di una società multiculturale e multireligiosa, pacifica e armonica, o si tratta di un’utopia?

«Nel primo caso il 69% e nel secondo il 63% hanno risposto il contrario. Quindi al momento, calcolando che discutiamo ancora di quote rosa o di diritti gay, mi sembra un dato molto positivo».

Ha ancora contatti con la sua famiglia marocchina?

«Quando sono là tendo a chiamarli poco altrimenti mi sequestrano, mi bloccano in casa e mi costringono a mangiare di tutto. Quando finisce il pranzo comincia l’aperitivo».

I suoi genitori la seguono?

«Mia mamma vive ancora a Milano. L’ho fatta venire una volta sola quando cantavo in un pub e mentre io cercavo di darmi le arie da Janis Joplin lei è venuta sotto il palco a dirmi che fumavo troppo! Non l’ho mai più fatta venire».

Cosa pensa della crisi del disco?

«Se vuoi andare in giro con il macchinone, è meglio se fai altro. Ma io ancora resto stupita di ricevere uno stipendio per stare tutto il giorno nella sala di registrazione a scegliere il timbro di una batteria».