Dj Fabo, l'amico: "Non sono triste, l'ha scelto lui"

A Milano, nel quartiere di Fabiano Antoniani. Il compagno delle sfide a Monopoli: "Gli ho detto ciao" Cappato si autodenuncia

Fabo ai tempi in cui girava il mondo come Dj

Fabo ai tempi in cui girava il mondo come Dj

Milano, 1 marzo 2017 - Non ci sono coccarde di velluto scuro, nessun biglietto di addio e nemmeno fiori. Ma tutti, nel palazzone di via Giambellino alla periferia sud ovest di Milano, che per Dj Fabo era «casa della nonna» fino a qualche anno fa e che poi si era trasformata nella sua, sanno che «Fabiano non c’è più». Soprattutto Riccardo C., suo amico fin dall’infanzia, 10 anni più grande. Stessa scala, due piani sotto, era abituato a vederlo da sempre. 

Non siete a lutto? «Non c’è tristezza perché rispetto la sua decisione. La verità è che sono contento per lui e anche per la sua mamma. Mi immedesimo in lui, penso che quella non-vita fosse un fardello troppo pesante. Soffriva troppo, non solo per la condizione di immobilità ma anche per i dolori fisici sempre più duri da sopportare. E poi pensavo anche alla tragedia nella tragedia, nel momento in cui sarebbe venuta a mancare la mamma. Se n’è andato per liberare lei, e anche la fidanzata Valeria, che gli stava dedicando la sua vita. Qui sapevamo tutti della sua decisione e nessuno ha cercato di fargli cambiare idea.Né lui cercava approvazione»».

Quando l’ha visto l’ultima volta? Cosa vi siete detti? «Prima che partisse. Niente di particolare, ci siamo salutati con un semplice ‘ciao’. La cosa più naturale. D’altronde Fabo se n’è andato come se fosse la cosa più naturale del mondo. E non è giusto che sia dovuto partire».

Avrebbe dovuto poter morire in Italia, secondo lei? «Certamente, non è giusto che sia dovuto andar via come fosse un ladro, in esilio, a morire in un altro Paese, lontano dalla sua città, dal suo quartiere, dalla sua casa, dal suo letto, senza che nessun rappresentante delle istituzioni si fosse degnato di rispondere ai suoi appelli. Perché? Diamoci da fare perché questo non debba più accadere. Perché altri, penso in modo particolare a un altro ragazzo che in Italia è nelle stesse condizioni in cui era Fabo, non debbano per forza partire per morire». 

Ne parlavate, di questo? «No, evitavo. Quando mi capitava di salire a casa sua, parlavamo di tutt’altro. Non tiravo mai in ballo l’argomento malattia, gli chiedevo le cose più disparate, volevo regalargli ‘normalità’. Andavo da lui per dei motivi pratici di solito: sono un tecnico informatico, quando capitava che un pc si inceppasse o che ci fosse un problema tecnico, puntualmente mi offrivo di risolverlo. E salivo per quello, a dare un aiuto a un vicino». 

Cosa facevate, insieme, da bambini? «Correvamo in cortile oppure giocavamo a Monopoli, sempre insieme mentre al venerdì le nostre mamme giocavano a carte. Fabo non aveva mai perso vitalità, anche se negli ultimi tempi non era più lo stesso. Ad esempio lui amava i fuochi d’artificio: per festeggiare Capodanno aveva radunato decine di amici, qui in strada, in via Giambellino. I fuochi erano un po’ la sua firma».

Una luce e un fremito che forse continuava a sentire nel cuore.