Delitto Jason, la difesa: "Katia affetta da infermità mentale. Era incapace di salvare il bambino"

L’avvocato Di Nanna ricorre in Appello: «Lei vittima del marito»

Katia Reginella scortata dagli agenti della polizia penitenziaria (foto La Bolognese)

Katia Reginella scortata dagli agenti della polizia penitenziaria (foto La Bolognese)

Ascoli, 14 gennaio 2015 - Katia Reginella avrebbe dovuto essere riconosciuta non imputabile per la morte del figlio. E’ il pensiero dell’avvocato Vincenzo Di Nanna, il quale punterà a dimostrare come la donna fosse «affetta da ritardo mentale congenito, vittima di gravi violenze subite già dall’infanzia e in seguito da parte del marito Denny Pruscino», nel ricorso appena presentato contro la sentenza della corte d’Assise di Macerata, che il 18 giugno scorso ha condannato in primo grado la donna a 25 anni di reclusione e l’uomo all’ergastolo. Oltre sessanta pagine con le quali il legale abruzzese cercherà di attestatare l’incapacità, da parte della giovane mamma, di rendersi realmente conto della gravità di quello che stava accadendo e soprattutto di poter «scegliere, tra le varie alternative, un programma di azione che avrebbe potuto salvare il figlioletto dalla furia omicida del Pruscino». Di Nanna è critico con l’operato dei giudici, perché a suo dire hanno «rimosso» il contesto di violenze e soprusi in cui la Reginella ha dovuto vivere. «L’omicidio del piccolo Jason può considerarsi solo uno (il più grave) degli episodi dei maltrattamenti consumati dal Pruscino in danno della moglie e dei figli, delitto accertato dalla Corte d’Assise, ma non contestato dalla Procura», scrive ancora Di Nanna, il quale avanza censure verso la Procura ascolana (la coppia viveva a Piane di Morro) per non aver riunito in un unico procedimento le indagini sui maltrattamenti subiti dai due figli avuti dai Pruscino prima di Jason: un bambino e una bambina vittime di strani incidenti domestici che ne hanno minato lo sviluppo psicofisico, e indussero il Tribunale dei minori a darli in affido ad altre famiglie.

Nessun soccorso. Insomma in un quadro di tale violenza e disagio, il legale abruzzese chiede che venga rivista la posizione della donna. «Le pur gravi ed evidenti condizioni di infermità mentale dell’imputata, riconosciute da tre diversi periti d’ufficio - scrive nella memoria- hanno trasformato il giudizio in un orribile e grottesco esperimento su una povera cavia umana». Lo dimostrerebbe, fra l’altro, un «interrogatorio-tortura», così lo definisce il legale, al quale Katia venne sottoposta il 21 novembre 2011 nel carcere di Teramo: la donna raccontò di essere tornata il giorno dopo la morte di Jason nei luoghi in cui i resti del bimbo erano stati gettati via, con l’intento di «soccorrerlo».

Questo ribadirebbe, secondo Di Nanna, come Katia Reginella «in alcun modo abbia pensato in quei drammatici istanti alla necessità di soccorso, idea addirittura concepita solo il giorno dopo». Il difensore parla di «una vera e propria metamorfosi processuale al punto da trasformare una povera giovane, affetta da ritardo mentale congenito, vittima di gravi violenze e traumi subiti sin dall’infanzia, nella “scellerata assassina” del proprio figlioletto». L’omicidio del piccolo Jason avvenne alla fine di giugno 2011 (ad accorgersi che non c’era più furono i nonni e i vicini della coppia), ma il corpicino non fu mai ritrovato, nonostante le indagini andarono avanti per mesi e mesi, cercando di seguire le contraddittorie e confusionarie dichiarazioni rese dai genitori.