Martedì 23 Aprile 2024

Il chirurgo più forte della paralisi. Opera su una carrozzina verticale

Marco Dolfin, disabile dopo un incidente: "Chiamatelo pure esoscheletro"

Dolfin nella foto di F&DI Photographers in sala operatoria con l'esoscheletro

Dolfin nella foto di F&DI Photographers in sala operatoria con l'esoscheletro

Torino, 9 dicembre 2017 - Era l’11 ottobre 2011, il giorno che lo ha catapultato in una nuova vita. Dell’incidente ha ricordi confusi. L’auto che salta lo spartitraffico in via Botticelli e gli viene addosso, il frontale, la moto distrutta. E poi l’arrivo, cosciente, nel suo Pronto Soccorso, con i colleghi stupiti di trovarlo dalla parte sbagliata. Era la sua seconda settimana di lavoro come chirurgo ortopedico al San Giovanni Bosco. Marco Dolfin, da medico prudente, non fece domande prima di entrare in sala operatoria. La diagnosi venne da sé qualche giorno dopo quando, come nei film, disse alla moglie Samanta che fa l’infermiera: «Non sento più le gambe». Oggi a 36 anni questo giovane dottore paraplegico è tornato a stare dalla parte giusta. Fa con passione il mestiere che si è scelto incoraggiato dalla mamma pediatra e dal papà ginecologo.

È andato alla paralimpiadi di Rio e ha portato a casa la medaglia di legno nel nuoto, lui che prima si limitava a qualche bracciata la domenica. Ha una carrozzina leggera che apre e chiude come un ombrello e lo porta dappertutto. E una futuribile armatura che lo tiene in piedi davanti al tavolo operatorio dove a ritmi forsennati rimette a posto anche, spalle, mani e ginocchia. «Chiamiamola esoscheletro per farla breve, in realtà anche quella è una carrozzina elettronica verticalizzabile che si aziona con un telecomando. La parcheggio in sala operatoria perché deve essere sempre sterile come un bisturi».

E i pazienti cosa dicono quando la vedono pronto a operare con l’armatura?

«Chi affida la propria vita o un ginocchio a un estraneo ha il diritto di avere le reazioni più strane. Ma con il dialogo passa la paura. D’altra parte io vado da un parrucchiere calvo che taglia bene i capelli».

(voci di bambini) Sono i suoi figli?

«Mattia e Lorenzo, i gemelli, 3 anni. Mi chiamano per l’albero di Natale. Quando sono arrabbiati minacciano di rompermi la carrozzina. La parte più difficile è spiegare perché papà non può correre con loro. Ma quelle due creature meravigliose forse sono un regalo dell’incidente».

In che senso?

«Non sono di quelli che ringraziano la sfortuna per il regalo di una nuova consapevolezza, sarei pazzo. Ma forse senza quell’11 ottobre non ci sarebbero stati i bambini e nemmeno il Brasile, la vita sarebbe andata da un’altra parte. Ho ben chiaro di avere saltato un confine.

Come?

«Avevo 30 anni, era appena finita la specializzazione, mi ero sposato, avevo vinto il concorso e rischiato di morire. La frattura vertebrale poteva non essere un problema se non ci fosse stato un sanguinamento e un ematoma. Ho capito. E non ho avuto scelta. Certe cose non potevo più farle ma volevo verificare cosa ero in grado di combinare con quello che avevo a disposizione».

Che cosa ha capito?

Le mani erano quasi intatte. Con qualche aggiustamento anche la mia autonomia. I tecnici dell’Officina ortopedica Maria Adelaide mi sono venuti incontro e si è aperto un mondo nuovo. Adesso sto attento ad aspetti medici che prima non consideravo. Ma a quello che è stato non penso più. Mi va bene tutto quello che non posso cambiare. Faccio il meglio che posso con quello che ho».