"Scriverò il mio biotestamento". Il vescovo: la legge va approvata

Monsignor Casale controcorrente: "Basta battaglie di retroguardia"

Piergiorgio Welby (Ansa)

Piergiorgio Welby (Ansa)

Bologna, 27 aprile 2017 - Contro le guerre ideologiche sul fine vita, oltre lo strappo del cardinale Martini che, davanti alle «zone grigie» della bioetica, invitava alla prudenza la Chiesa dei valori non negoziabili. Distintosi in passato per le sue tesi riformiste sull’ordinazione sacerdotale di uomini sposati e sulle unioni omosessuali, monsignor Giuseppe Casale, emerito di Foggia, in pieno dibattito sulla legge in tema di Dat (Disposizioni anticipate di trattamento) approvata alla Camera, è il primo vescovo in Italia a confidare pubblicamente di essere «sempre più convinto di scrivere il mio testamento biologico, devo farlo quanto prima».

Eccellenza, nonostante l’età, lei è in salute: che cosa la spinge a compiere questo passo?

Mi sento bene, sono ancora lucido, ma ho anche i miei buoni anni, 93 per la precisione. Il mio è un atteggiamento di previsione di quello che potrebbe accadermi da un momento all’altro».

Perché il biotestamento abbia valore bisogna che la legge passi anche al Senato.

«Sul fine vita l’alternativa non è tra il vivere e il morire, la questione è un’altra: si tratta di aiutare, accompagnare il malato, anche grave, a vivere e a spegnersi bene. Dal punto di vista etico non possiamo usare tecniche per accelerare il decesso, da qui la mia opposizione a ogni forma di eutanasia. Dobbiamo, invece, adottare dei sistemi per far morire meglio. Ecco perché ritengo che scrivere le Dat sia un gesto importante e che la legge ad hoc debba andare in porto, evitando le lungaggini del rinvio del ddl da un ramo all’altro del Parlamento, con il rischio che nel frattempo si concluda la legislatura».

Il presidente dei vescovi, il cardinale Bagnasco, ha detto che la Chiesa «non si riconosce nella nuova legge», addirittura alcuni parroci in Molise, dopo l’ok di Montecitorio, hanno suonato le campane a lutto. Il muro contro muro è produttivo?

«Non è il caso di fare battaglie ideologiche o di retroguardia su questi problemi. Occorre anzitutto guardare al malato, con i suoi bisogni e le sue esigenze, creando attorno a lui una cortina di amicizia e di sostegno, perché non sia abbandonato a se stesso e le scelte sulla sua salute siano le più condivise possibile. Niente muro contro muro, quindi, né squilli di tromba o campane a morto. Quest’ultime le fecero suonare già a suo tempo in occasione del primo matrimonio civile... Diciamo che evocano un ricordo triste».

Ha fatto bene il legislatore a sancire il divieto di accanimento terapeutico e ad ammettere la sedazione profonda continua?

«Senz’altro, trovo anche corretto l’aver incluso fra i trattamenti sanitari l’alimentazione artificiale. Questa non è un atto necessario non disponibile, è una pratica medica a tutti gli effetti che un paziente può scegliere di non volere».

Lei tocca uno dei punti di maggior attrito nel dibattito alla Camera.

«Con l’alimentazione artificiale non è che si fa mangiare la gente... La si mantiene in vita, somministrandole dei nutrienti con un sondino. Diceva bene il filosofo cattolico Giovanni Reale, quando scriveva che ‘dobbiamo evitare di legare la vita a degli accanimenti tecnici’».

Se un suo amico, nelle condizioni di dj Fabo, volesse andare in Svizzera per sottoporsi al suicidio assistito e le chiedesse di accompagnarlo, partirebbe con lui?

«Sinceramente non andrei, ma cercherei comunque di stargli vicino, di fargli sentire la mia presenza in maniera che lui possa capire che la mia e la sua esistenza stanno insieme».

E che cosa ne pensa del fatto che, se verrà approvata la legge sul fine vita, anche le case di cura cattoliche convenzionate dovranno applicare la normativa?

«Credo che debbano osservarla senza trincerarsi dietro false obiezioni di coscienza. Questo provvedimento, che ci fa uscire dall’atteggiamento selvaggio attuale, è positivo. Va accolto e vissuto coscientemente».