Bambina morta in auto, la mamma nel mirino: insulti e minacce sul web

Arezzo, frasi choc in Rete. La coppia costretta a chiudere i profili

Castelfranco di Sopra (Arezzo), il luogo della tragedia - Foto Ansa

Castelfranco di Sopra (Arezzo), il luogo della tragedia - Foto Ansa

Arezzo, 10 giugno 2017 - LORO non hanno bisogno di indagini, interrogatori o altri «orpelli» giudiziari: il social grida fuoco? E loro sparano. Sparano a distesa: contro una mamma, la mamma di Castelfranco costretta a seppellire Tamara, la figlia di 18 mesi, per una fatale amnesia, averla dimenticata in auto. E usano la stessa furia con cui viene finito l’Aldo Fabrizi di «Roma città aperta». «Questa ignobile vivrà come ha sempre fatto» sentenzia una navigatrice abbassando il pollice come un imperatore nell’arena. Lei conosce Ilaria Naldini, l’ha mai vista portare in carrozzina Tamara? No, ma spara.

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L’autopsia ieri ha confermato che la piccola dovrebbe essere morta per un colpo di calore, forse anche in meno di un’ora di sole: ma a che servono le autopsie? A nulla nell’era di Facebook.

«NON giustificate la mamma: come si fa a lasciare un bambino chiuso in macchina per ore?». La parola d’ordine attraversa i social come uno tsunami. Forse sono la minoranza ma fa più rumore della maggioranza silenziosa che osa alzare una diga. «Non esagerate, è una mamma disperata, vittima anche lei» riparte uno, consapevole di sfidare la folla virtuale. Una folla davanti alla quale i genitori di Tamara alla fine si arrendono, stremati. Ieri hanno chiuso i loro profili Facebook. Erano diventati un poligono di tiro, del quale erano un bersaglio (decine gli insulti). In mezzo, certo, anche gli amici, i volti di un paese (Castelfranco ma anche gli altri del Valdarno) pronti a spendersi per la donna. Affetto e non «a fette»: ma che stava affogando tra gli improperi. Personali e non solo. «Vita frenetica? Era una dipendente del Comune: immagino quanto fosse stressata dal super lavoro». I pregiudizi galleggiano tra le strade virtuali del Valdarno precisi come frecce. «E le mamme che lavorano in fabbrica tutto il giorno, che dovrebbero fare? Suicidarsi?». Peccato che quelle frequentino poco Facebook e che il plotone di esecuzione si alimenti altrove.

MENTRE nella valle ferita si fermano le feste, si sospendono le Fiere, si cerca spazio per piangere per la piccola e per chi convive con l’angoscia. Il paese reale prova a modellare quello virtuale. C’è chi analizza in modo più sottile («inizio mattina, sei lucido, come fai a dimenticarti») e chi scavalca i secoli e la logica («Alle donne che lavoravano in casa non succedeva»). Ma la crociata è travolgente e spietata. E colpisce i genitori ma anche i loro omonimi, nel mare di Facebook i dettagli non contano, figuriamoci i nomi o i cognomi. Una signora per difendersi mette le mani avanti: ha un maschio e non una femmina. Ma non basta. Intanto la famiglia si ripiega su se stessa: il funerale sarà in forma privata, per non dare spazio a clamorie. Mentre un gruppo di mamme apre un nuovo profilo. Hashtag? «Poteva succedere anche a me». Per andare controcorrente. Per strappare le vittime al plotone di esecuzione.