Giovedì 18 Aprile 2024

Far convivere le ragioni e i torti. L'unica strada per un Paese più giusto

La forza della nostra storia: accettare la complessità di cui siamo fatti

Partigiani armati davanti al corpo di un repubblichino appena ucciso

Partigiani armati davanti al corpo di un repubblichino appena ucciso

Roma, 21 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, seguiranno quelli di Walter Veltroni, Augusto Barbera, Marco Follini, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia e Claudio Martelli. 

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di MARCO FOLLINI

Ho ereditato da mio papà l’amicizia bella, intensa e riservata di Franco Cangini. L’uno democristiano, moroteo e partigiano a 16 anni. L’altro appena sepolto con indosso la camicia nera, come ne scrive il figlio Andrea. Eppure, li ricordo tutti e due rispettosi delle loro differenze, attenti a non urtare le reciproche suscettibilità, discreti nel rivendicare le proprie opposte ragioni. Amici, appunto. Mio papà si era arrampicato sulle colonne piacentine da ragazzo. Si era arruolato nelle brigate antifasciste di Giustizia e libertà, si era fatto “bandito” come gli piaceva dire. Qualche anno dopo il giornalista missino Giorgio Pisanò aveva scritto un libro su quelle vicende – “Sangue chiama sangue”, mi pare fosse il titolo – e aveva messo in copertina la foto scattata in quel di Piacenza di un gruppo di partigiani armati e giovanissimi disposti intorno al cadavere di un repubblichino che era stato appena giustiziato. Uno di quei ragazzi era mio papà.

Ancora qualche anno dopo quella foto venne ripubblicata da Pasquale Chessa e poiché all’epoca avevo una certa notorietà politica mi venne chiesto di commentarla. In effetti, quel cerchio di ragazzi armati intorno a una vittima dava l’idea di tutta la crudezza di quegli anni. Ricordo che a suo tempo ne avevo chiesto a mio papà. E lui mi aveva raccontato che quel ragazzo in camicia nera si era appostato sui tetti e di lì, sparando e colpendo, aveva continuato la sua guerra. La stessa guerra che aveva indotto quei ragazzi a fucilarlo. Un evento piccolo, in quel contesto. Eppure tanti di quegli eventi hanno segnato i percorsi degli anni successivi. Mescolando tra loro le ragioni e i torti della storia e le ragioni più piccole, ma cruciali, dei mille e controversi destini personali che su quello scenario pretendevano il loro posto.

A distanza di tanto tempo io mi sono fatto questa idea. Che esistano una Ragione e un Torto da scrivere a lettere maiuscole. La Ragione di chi ha combattuto per la libertà e il Torto di chi ha militato sotto le bandiere della dittatura. Ma che poi esistano anche migliaia di ragioni e di torti meno grandiosi, eppure decisivi, che hanno a che vedere con il modo in cui tante persone hanno scelto dove schierarsi. Magari cambiando idea qualche anno dopo. Oppure, come nel caso di Franco Cangini, conservando una propria granitica convinzione, sia pure nascosta sotto il velo di una singolare discrezione umana (e professionale).

Qui entrano in ballo, per ognuno di noi, le letture del paese. La mia è antifascista, nutrita dai racconti di un padre combattente e di una mamma ebrea. Da loro ho ereditato un’interpretazione incancellabile di quegli anni. Qualcosa che non si ferma al 1943, ma invade l’attualità, la politica, l’idea dell’Italia. La sua civiltà, se vogliamo usare una parola solenne. O più modestamente, il colore della mia camicia. Eppure, se tutto questo rappresenta per gente come me una certezza, e se questo è scritto nella legge fondamentale che ci siamo dati, anche questa regola fa i conti con le sue imperfezioni. Che sono appunto le mille e mille vicissitudini di cui è intessuta la nostra apparente regolarità sociale e civile. Così, capisco che ci siano stati fascisti che si sono proclamati tali, e tali sono rimasti, per custodire una certa idea dell’onore dell’Italia, e per restare coerenti a se stessi. E che ci siano stati antifascisti che hanno sconfinato nel fanatismo, nell’unilateralità, nella giustizia sommaria.

Ora, passati così tanti anni e sbiaditi quei ricordi, una comunità degna del nome dovrebbe essere capace di tenere insieme la Ragione e il Torto, e poi anche le ragioni e i torti. Sapendo che non sempre il taglio netto e brusco è il modo migliore per custodirli. Io penso che l’Italia si spieghi con il suo pluralismo, con la sua sofferta capacità di mettere insieme storie e destini che qualche volta faticano a trovare le ragioni della propria convivenza. È solo quella convivenza che può fare di noi un paese bello, vario, giusto e libero. La forza della nostra storia sta appunto nel riconoscere la complessità e la fragilità di cui siamo impastati. Ma capisco che questa idea del paese è a sua volta un’idea controversa, che trova mille avversari – e non solo tra quanti negli anni quaranta del secolo scorso battevano un’altra bandiera. Possiamo dire che quella disputa è archiviata perché hanno vinto (almeno dal mio punto di vista) i “buoni” ? Forse le cose sono più complicate di così.

Mio padre mi raccontava la guerra con un sentimento mite. Un giorno gli chiesi quante persone avesse ucciso. Mi rispose – con una gravità che non gli era consueta – che riusciva solo a pensare a quante altre fosse riuscito a salvare la vita. E credo che tra queste altre persone ci fossero anche alcuni suoi amici di gioventù che militavano sotto le bandiere della Repubblica di Salò. Ancora oggi gli sono grato di quella mitezza. Aveva fatto la scelta più giusta, ma l’aveva compiuta senza che mai quella consapevolezza scivolasse nel trionfalismo. I suoi racconti di quegli anni tradivano sempre la consapevolezza che nell’orrore della guerra troppe vite erano state bruciate perché ci si potesse vantare di quel che si era fatto. Il galantuomo Cangini pensava invece che la Patria, lo Stato, l’onore, il giusto, la verità fossero dalla parte opposta. Ma poi scriveva di politica con un rispetto scrupoloso delle vicende e delle opinioni di quelli che erano prevalsi e avevano dato vita a un altro Stato e a un’altra Patria. Quasi che il verdetto della storia fosse diventato un punto fermo anche per lui. E la democrazia uscita dalla guerra avesse infine conquistato la sua attenzione se non il suo consenso. Spero che non si arrabbi se oggi lo interpreto così.

(7. continua)