Sabato 20 Aprile 2024

L'onore di un gesto estremo. Contro lo sfascismo di tutti i giorni

Il senso di un atto simbolico nell'Italia dei diritti senza doveri

Scontro tra studenti all'università di Roma nel 1968

Scontro tra studenti all'università di Roma nel 1968

Roma, 20 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato ieri dal direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. All’articolo di Franco Cardini seguono oggi quello di Luciano Violante, seguito da quelli di Pierluigi Battista, Walter Veltroni, Augusto Barbera, Marcello Veneziani, Marco Follini, Francesco Perfetti. 

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di MARCELLO VENEZIANI

Caro Andrea,mi ha molto colpito, e anche sorpreso, sapere da te che tuo padre ha voluto indossare la camicia nera per il suo estremo viaggio. Conoscevo tuo padre Franco non solo come un galantuomo e un giornalista lucido e rigoroso, ma a voler indicare il suo orientamento lo avrei definito un moderato, forse un conservatore, un anticomunista. La camicia nera mi ha invece spiazzato e mi ha ricordato due precedenti: Dino Ferrari, figlio del mitico Enzo, giovane militante missino, e Giano Accame, fascista inquieto e aperto al dialogo oltre ogni frontiera. Ma da tuo padre, sinceramente, non me l’aspettavo. Aggiungo che la sua scelta ha accresciuto la mia stima nei suoi confronti e non per un banale nostalgismo ma per il suo anticonformismo, per il suo atto estremo e sincero di lealtà verso la sua vita, la sua adolescenza e la storia del suo paese.

Cosa può voler dire oggi decidere di congedarsi dal mondo in camicia nera? Vuol dire dichiarare a viso aperto, nel momento assoluto della verità, che quest’Italia non ci piace, anzi questa non-Italia ci dispiace. Vuol dire ribellarsi ai canoni del politicamente corretto, alle leggi che puniscono i reati d’opinione, alla storia manipolata e negata, da cui è impossibile dissentire. Vuol dire essere fedeli alla propria adolescenza nel dopoguerra, fedeli a coloro che hai amato, magari ai tuoi famigliari che per quell’ideale, per quella scelta, pagarono di persona. Indossare la camicia nera vuol dire indossare il lutto per la patria perduta, ritenendo che davvero vi sia stata tra l’8 settembre del ’43 e l’aprile del ’45 la morte della patria.

Personalmente dissento da questa lettura di Salvatore Satta, poi di Renzo De Felice e di Galli della Loggia, e preferisco dire che in quel frangente si sciolse il nesso tra l’amor patrio e lo Stato; l’italianità si fece impolitica, passò alla clandestinità o si rifugiò in ambiti eccentrici e privati; nel carattere, nella cucina, nello sport, nel turismo, nella moda, insomma al riparo dalla storia e dalla politica e lontano dalle istituzioni. Ma capisco chi ritiene che da allora la patria abbia vissuto un interminabile funerale e un indecente necrologio. Allora capovolgo la domanda e chiedo: chi decide di indossare in extremis la camicia nera, senza aver mai mostrato alcun fanatismo, alcun cedimento retorico al nostalgismo, cosa vuol denunciare?

Non l’antifascismo coerente che si oppose al regime fascista, e ne pagò il prezzo. Non l’antifascismo che nel nome della libertà e contro i tedeschi combatté la sua guerra e mise a repentaglio la propria vita. Semmai chi combatteva il fascismo non nel nome della libertà ma di una più cruenta dittatura, di un regime totalitario più radicale che ha un nome preciso: comunismo. E l’antifascismo sanguinario di cui ha scritto recentemente Pansa e prima di lui altri storici ma “dalla parte sbagliata”: dico i massacratori del triangolo rosso, gli infoibatori, gli assassini di Gentile e di tanti altri.

Ma non è l’antifascismo che Cangini ha voluto sfidare in punto di morte, nemmeno l’antifascismo postumo e grottesco delle leggi speciali a settant’anni dalla morte del fascismo, dell’Anpi che non ha pietà neanche per i morti e per le vittime inermi e innocenti. O l’antifascismo da parata e da passeggio dei nostri anni. Ma un fenomeno più pervasivo e più distruttivo: lo sfascismo. Ossia la voglia di sfasciare la nostra nazione, la sua identità e la sua sovranità, i suoi confini e la sua civiltà. Di ridurla a sala d’aspetto dell’Europa, tinello dei poteri forti, corridoio umanitario per i migranti. Quello sfascismo che va dalla cosa pubblica alla vita privata, che investe famiglie e valori, che inveisce contro la nascita e la fertilità, che giustifica ogni sfascio come una liberazione e un’emancipazione; che predica il diritto di avere diritti e impone il diritto di desiderare rispetto a ogni responsabilità e a ogni dovere. Quello è lo sfascismo imperante, da almeno 50 anni (dico dal ’68). Contro quello sfascismo è insorto un galantuomo come Franco Cangini, che era uomo d’ordine e non concepiva i diritti scissi dai doveri.

Fascismo qui diventa l’opposto di sfascismo: ossia volontà di edificare, di unire, di mettere in salvo, di tramandare. Per questo io penso che quella sua scelta estrema gli faccia onore. E penso che faccia onore anche a te, direttore, di aver non solo eseguito la volontà di tuo padre ma di averla resa nota e di parlarne senza ipocrisie e imbarazzi. Tra tanti ominicchi e quaquaraquà, ecco un uomo, che senza clamori, senza intemperanze, forte solo della sua coscienza pulita e libera dignità, decide nel momento della verità di affrontare l’estremo viaggio verso l’ignoto in camicia nera. Un modo per farsi coraggio, per fregarsene della morte, per tentare con un piccolo atto simbolico – etica ed estetica del coraggio – di fronteggiare omeopaticamente la Nera Signora.

(4. continua)