Roma, 20 giugno 2012 - Ecco lo svolgimento del tema di tipologia D, il tema di atttualità.

"Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita" (Paul Nizan, Aden Arabia 1931). Il candidato rifletta sulla dichiarazione di Nizan e discuta problemi, sfide e sogni della nuova generazione.

E’ difficile imparare la propria parte nel mondo. Difficile, come scrive lo scrittore ribelle Paul Nizan nel romanzo Aden Arabia, avere vent’anni. “Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Crolla un mito, ma forse non è mai esistito. Quanto è bella giovinezza? Vista da fuori, ma anche da dentro, neanche un po’. Magari dopo, nello struggimento dei giorni perduti, quando la nostalgia delle possibilità infinite avrà fatto dimenticare angosce e complicazioni. Per chi la attraversa, soprattutto oggi, la giovinezza è un viaggio in alto mare su un vela con il timone difettoso e il barometro che segna tempesta.

Un tempo sopravvalutato. Avere vent’anni o giù di lì richiede talento, nervi saldi e un formidabile senso dell’umorismo. Troppe domande, troppe idee, troppa poca esperienza per metterle insieme. In un vecchio film Cary Grant aveva già capito che essere giovani non è poi una gran cosa. Non sono i giorni degli usignoli e di Babbo Natale, ma una serie di disastri da farsa che più tardi porteranno a domandarsi: come ho fatto a sopravvivere? Si sopravvive perché a vent’anni è ancora tutto intero. Perché sembra che niente debba finire. Perché a ogni curva, a ogni incontro, a ogni libro tutto può succedere. Si fatica e si piange di nascosto ma ancora si crede che il mondo sia fatto di cose inseparabili: gli uomini e le donne, le montagne e le pianure, l’inferno e gli dei. A vent’anni è sempre sabato.

Paul Nizan era un ribelle, un anticonformista molto arrabbiato. Non vedeva possibilità di guarigione. Ma alla fine del suo viaggio avrebbe capito che prima di pensare a salvare l’universo è necessario affrontare se stessi. Quelli che sopravvivono alla propria giovinezza in fondo compiono lo stesso percorso, anche se oggi la faccenda è un po’ più complicata. Si cresce nella certezza di essere destinati alla perfezione e si rinuncia troppo presto all’improvvisazione. I bambini venuti su a merendine e cartoon giapponesi hanno centinaia di amici virtuali e si sentono soli. Studiando allo specchio le mosse degli adulti imparano ad accendere candele sull’altare della carriera e sbarcano in un mondo dove non c’è più lavoro. Comprano oggetti e diventano oggetti di consumo. Hanno l’energia di una centrale nucleare e qualche volta gli scappa, se non è lo sballo è una bravata in moto o una strage alla Play Station. A vent’anni uno ha già capito che per certe cose è troppo tardi, e non è bello: diventare Balotelli, Nadal, un grande pianista. E per altre è troppo presto perché i posti sono tutti occupati, ancora più brutto.

 Non sanno cosa inseguono, da cosa fuggono, cosa li insegue. Non hanno imparato ad addomesticare la noia e la menzogna. Devono arrangiarsi dentro famiglie allargate con troppi padri e troppe madri. Tutti belli, alti, alla moda. Sono spariti i sogni, anche quello minimo di far sparire i brufoli, perché non li ha più nessuno. Sanno che se non si laureano in fretta un ministro li chiamerà sfigati, ma anche che la laurea non è garanzia di successo. Sanno che se non se ne vanno di casa qualcun altro li chiamerà bamboccioni, ma dove vanno? Hanno fatto tutti almeno un corso di nuoto e questa potrebbe essere una consolazione in una società liquida, ma non sono allenati al combattimento. I loro genitori sono stati i primi a disobbedire ai padri e i primi a obbedire ai figli, pessimo esempio per una generazione frastornata. George Bernard Shaw sosteneva che è un peccato lasciare sprecare la giovinezza ai giovani, ma era portato al paradosso. Nonostante la fatica e le tempeste un ventenne non dovrebbe dar retta a lui o a Paul Nizan, non dovrebbe farsi portare via i suoi vent’anni. Passeranno presto. E solo allora potrà dire che la giovinezza non è bella perché è bella, ma perché non c’è più.

di Viviana Ponchia