Programmare è la chiave

«ANCHE se un tedesco non fa nulla riceve il premio Nobel per come lo organizza», sentenziava il filosofo Elmar Kupke. In Italia, chiosava Leo Longanesi, «se c’è una cosa che funziona, è il disordine». Non sono solo parole. Prendiamo la vicenda dei profughi. La Germania ne accoglie circa 500mila all’anno. Ma non si limita ad ‘ospitarli’. Nei centri di prima e seconda accoglienza offre loro alloggio, vitto e perfino un sussidio di 330 euro al mese. In cambio li obbliga a imparare il tedesco e a seguire corsi di formazione fortemente orientati sulle esigenze degli imprenditori. Chi rifiuta perde tutti i benefici e torna a casa. Da noi i Centri per l’Impiego a malapena riescono a trovare un’occupazione all’1,8% dei disoccupati italiani (in Germania siamo al 25%). E, per quanto riguarda i migranti la percentuale scende allo 0,4%. Gli altri o girano a vuoto per le città, alimentando paure e diffidenze, o rischiano di cadere nel circuito della criminalità. Un disastro che ha un nome e cognome: assenza di programmazione.

NON si tratta di un’eccezione. Nel secondo trimestre siamo tornati alla crescita zero. Fra il 2001 e il 2013 l’Europa a 27 è cresciuta del 16%. In Italia il Pil è calato dello 0,2%. Abbiamo viaggiato dieci volte più lentamente. Il motivo? L’economia tedesca ha fatto dell’innovazione la sua bandiera. Ogni anno investe il 3% del Pil in ricerca e sviluppo, il triplo rispetto all’Italia. E dispone di una possente organizzazione pubblica – il Fraunhofer – che produce ricerca e sviluppo applicata: 18mila scienziati e ingegneri che hanno un solo obiettivo: portare sul mercato nuovi prodotti. Un altro esempio? La gestione dei rifiuti: da noi il 50% finisce in discarica, solo il 30% viene riciclato. In Germania la percentuale è doppia. Anche qui a fare la differenza è una parola: programmazione. Forse per questo, dopo 151 anni, l’Italia continua ad avere il divario territoriale più ampio dell’Occidente. Anche la Germania, dopo la caduta del Muro, ha avuto la sua ‘questione meridionale’. Ma l’ha risolta in 20 anni. Per sempre. Lo diceva Adam Smith: la ricchezza di una nazione dipende «dall’arte e l’intelligenza con cui si organizza il lavoro». I tedeschi hanno da tempo imparato la lezione. Gli italiani sono ancora convinti, per citare Flaiano, che «la linea più breve fra due punti è l’arabesco».