Venerdì 19 Aprile 2024

Le parole uccise

Una vera angustia di sguardo ha dimostrato il legalitario divieto di Facebook che ha imposto il silenzio alla madre del ragazzo morto, protesa a scrivere sul sito del figlio per non spezzarne il filo della vita. Erano le Parche, nel mondo antico, le tre terribili divinità preposte a tesserlo, attorcigliarlo e spezzarlo con le loro inesorabili forbici. Facebook si è assunto la trista funzione di falciatrice della terza parca, oscurando col sito la sacralità della scrittura, una delle poche proteste contro la nostra mortalità che funzioni e salvi la vita. Assai più del diluvio di immagini televisive che sporcano i nostri occhi senza lasciare ombra di sé, le parole durano, ci commuovono, ci compromettono, ci mascherano e ci smascherano. Perché mai altrimenti ci piegheremmo a leggere gli scritti del passato, anche più remoto, sia quelli ispirati dalla poesia, come quelli semplicemente redatti dalla vita? Visitando una tomba egizia di più di tremila anni fa, vicina alle piramidi di Giza, mi sono commosso a leggere anche il minuto resoconto dei cibi, dei giocattoli, degli abiti, dei bastoni, dei calzari, dei semi di piante di un dignitario, di tutto il corredo della vita conservato per il gran viaggio nel Tempo. Tutto era contato

e raccontato per poter arrivare fino a me, che leggendo davo a quegli elenchi l’alito della mia vita. La parola può redimere anche il quotidiano, quando dura e si inoltra nel dopo. Questa madre, dopo aver discusso al posto del figlio la tesi di laurea, non si era fermata, aveva continuato a lanciare la sua parola. Gli aveva dato una seconda vita nella rete di relazioni che i social sanno intessere così viva, quella rete che già portava in sé suo figlio e che con l’aiuto di tanti amici non aveva voluto far cadere. Che rara occasione sprecata questa di Facebook per mostrare anche la sacralità laica della scrittura e non relegarla a pura carta assorbente dei nostri gesti quotidiani.