Mercoledì 24 Aprile 2024

La sagra dell'ipocrisia

Roma, 5 agosto 2016 - Dove la ragione si perde, gli intellettuali annaspano e i moralisti imperversano, è il buon senso del vecchio cow boy a dare dei fatti la giusta lettura. «La verità è che siamo tutti stufi del politicamente corretto», ha detto Clint Eastwood per spiegare il successo di Donald Trump. E tanto basta a chi vuole capire. Il politicamente corretto è una mistificazione, o, come scrisse Stefano Di Michele, «il tentativo più temerario dal tempo della Genesi di (ri)creare il mondo, (ri)battezzare le cose, (ri)nominare i vizi e le virtù». Una sagra dell’ipocrisia che si è radicata negli anni Ottanta nelle università americane, che ha velato la vista delle élite intellettuali anglosassoni, che si è infine diffusa come un cancro nel ventre molle di un’Europa smarrita senza più una bussola né un’identità. Per tutelare le minoranze si è annichilita la maggioranza. Ogni capriccio viene trasformato in “diritto”, ogni diversità in norma, ogni mistificazione in regola. Via i simboli religiosi, via le differenze di genere, di etnia, di cultura. Vietato chiamare le cose col loro nome, tutto deve esse relativo e neutro.

MA I TABÙ, spiegava Freud, generano nevrosi e le nevrosi prima o poi si sfogano. Dopo otto anni di Barack Obama, beccatevi dunque Donald Trump, la sua rozzezza, la sua scorrettezza politica. Anche se il danno, ormai, è fatto. La politica si è infatti incatenata con le sue stesse mani al politicamente corretto, rendendosi impotente di conseguenza. Se la logica dello statista dev’essere quella del boy scout, c’è spazio solo per il moralismo giudiziario, il perbenismo delle anime belle, la retorica dei diritti umani. Obama non fa ‘la guerra’, d’accordo, ma ha ammazzato più civili con i droni di Reagan e dei Bush messi insieme. Fare ‘la guerra’ sarebbe politicamente scorretto, organizziamo dunque delle belle ‘missioni di pace’ ma quando si scopre che poi la gente muore lo stesso siamo costretti a battere in ritirata. Gli «immigrati sono una risorsa», «gli uomini sono tutti uguali», «la religione non c’entra»: con questi presupposti nessun governo potrà mai disciplinare il fenomeno migratorio né opporre uno scudo all’incalzare dell’Isis. L’idea stessa della morte è proscritta, «siam pronti alla vita» cantavano i bambini del coro che lo scorso anno ha inaugurato l’Expo di Milano edulcorando nientemeno che l’Inno nazionale. Restiamo così in balìa degli eventi, senza più le parole per dare il giusto nome alle cose, senza più un’idea di noi, della nostra identità, della nostra storia. Poi arriva un Trump qualsiasi e turandosi il naso finisce per votarlo anche chi ne ha orrore. Così, per reazione. Una reazione alla frustrante condizione dovuta al politicamente corretto. La reazione di chi non si rassegna a morire vegano avendo perso di vista la differenza tra uomo e animale, a farsi chiamare ‘genitore A’ invece che padre, a farsi carico delle ‘colpe dell’Occidente’ non avendo alcuna colpa in proprio, a sciogliersi in una melassa indistinta in attesa che un afroamericano diversamente religioso ma consapevole di sé gli tagli la gola. Ma la religione non c’entra, ci mancherebbe, è che l’attentatore era un po’ depresso.