Martedì 16 Aprile 2024

Indipendenza Catalogna, il secessionismo è una roulette russa

Chi vuole la rottura strumentalizza i precari equilibri di Bruxelles

Catalogna, la piazza di Barcellona delusa (Reuters)

Catalogna, la piazza di Barcellona delusa (Reuters)

Roma, 11 ottobre 2017 - Gli Stati nazionali europei sono il prodotto di una storia plurisecolare fatta di guerre, invasioni, migrazioni, accentramenti e federazioni. A Occidente il sistema degli Stati ha raggiunto un proprio equilibrio nel XIX secolo. Alcuni di questi Stati hanno raggiunto un alto livello di omogeneità (come la Francia); altri, come il Belgio, la Spagna, il Regno Unito, hanno mantenuto un più alto livello di pluralismo. In questi ultimi, ma in misura minore pressoché ovunque, si sono mantenute specificità territoriali, in certi casi rafforzate da elementi quali la lingua e antiche forme di autonomia (come i fueros in Spagna), riconosciute in diverse realtà statuali. È a partire dagli anni Settanta, in corrispondenza delle crisi economiche, che molte rivendicazioni territoriali hanno assunto una forza particolare e, soprattutto, rafforzato movimenti e partiti che delle rivendicazioni delle ‘periferie’ avevano fatto la propria ragione sociale. Questi stessi movimenti e partiti hanno svolto un ruolo cruciale nel rafforzamento dei sentimenti di appartenenza a quelli che vengono definiti nazionalismi sub-statali. Anzi, hanno concorso anche a fornire una nuova forma a quei nazionalismi. Ad esempio, con aggressive (e illiberali) politiche linguistiche, come quelle condotte a favore del fiammingo e del catalano dalle autorità delle rispettive regioni autonome.

In diversi casi, in Spagna, Belgio, nel Regno Unito, gli ambiti di autonomia riconosciuti all’interno di istituzioni regionali si sono progressivamente ampliati in un susseguirsi di contrattazioni, compromessi e concessioni che hanno visto in prima fila le élite di quei partiti che hanno costruito la propria forza sfruttando forme di malcontento e dando a esse l’aspetto di rivendicazioni nazionaliste. I leader sono spesso ‘imprenditori’ delle identità, offrono identità come soluzione a bisogni diffusi, che magari con l’identità nulla hanno a che fare. Le inevitabili specificità territoriali e le antiche tradizioni sono diventate la benzina di quei partiti. Le cui leadership – proprio perché delle rivendicazioni contro il centro o contro le altre regioni hanno fatto la propria ragion d’essere – hanno inevitabilmente sempre giocato al rialzo. Spesso costringendo le componenti regionali delle altre forze politiche a giocare al loro stesso gioco per rimanere competitive.

Un gioco ‘centrifugo’ che alla fine può sfuggire di mano, o comunque costringere a giocarlo sino alle sue estreme conseguenze. Il Belgio sopravvive come tale soprattutto perché nessuna delle parti vuole cedere Bruxelles. Chissà per quanto ancora la Scozia continuerà a far parte del Regno Unito. E oggi un eccentrico leader nazionalista pare intenzionato a portar la Catalogna fuori della Spagna, basandosi sulla volontà espressa da una minoranza di catalani in un referendum illegale.

Nelle nostre società fluide e insicure, le mobilitazioni nazionaliste (come quelle xenofobe) forniscono l’illusione di protezione e sicurezza e nemici sui quali riversare le proprie frustrazioni (il governo centrale ‘oppressore’, i ‘diversi’). Ma sono mobilitazioni irresponsabili, che altro non vogliono che creare nuovi Stati, ma più piccoli e omogenei – e perciò escludenti – e che non si pongono il problema delle conseguenze della rottura dell’equilibrio del sistema degli Stati europei, nell’illusione che una debolissima Europa possa fare da ombrello a una nuova sorta di Sacro romano impero (che non era esattamente un ‘luogo’ tranquillo), ma senza imperatore.