Blue Whale, la morte idealizzata

Roma, 20 maggio 2017 - La morte non va guardata in faccia e neppure nominata. Per certe cose abbiamo cliniche bianche dove chi deve va a spegnersi in silenzio senza sconvolgere il travolgente impegno mondano del resto della famiglia, che non ha tempo per veglie e musi lunghi. Non se ne parla, non si viene preparati. Poi arriva un pifferaio anonimo che dice: guarda meglio, riconsidera.  Mai pensato alla morte come a un master in cui riescono solo i migliori? Cinquanta esami per una via di fuga euforica garantita, ecco il programma: automutilazioni, filmati dell’orrore, suoni sgradevoli, sveglie alle 4 del mattino, arrampicate su palazzi altissimi e alla fine il salto trionfale. Fra la morte negata e quella idealizzata è quasi inevitabile che un ragazzino si confonda e scelga – nei casi che gli psicologi chiamano di «fragilità consolidata» – la seconda. «Fragilità consolidata» non è una malattia rara e non ha niente a che vedere con il cuore spezzato. Per arrivare alla cementificazione dell’insicurezza va bene un po’ di disgregazione della rete familiare, magari un divorzio ma anche solo la svagatezza di  una madre che non insegna a lenire la delusione, un padre che nega tempo di qualità perché preferisce il tennis. Per un’azione a presa rapida si possono aggiungere l’abuso di sostanze, l’inconsistenza dei rapporti virtuali, tutto un catalogo di frane socio-affettive arginate malamente. E allora eccoli lì, a 13 anni ma anche a 5 come avvertono gli americani. Pronti a farla finita senza avere neanche cominciato. Cercate su internet il filmato del giovane padre che sembra suggerire una soluzione. È alle prese con il figlio neonato che urla come un ossesso ma non lo riempie di latte, non lo agita come un frappè. Semplicemente se lo mette sul petto nudo e intona per lui l’«Om» dei monaci tibetani, finché il piccolo si calma e spalanca gli occhi come se riconoscesse la strada. La sillaba che parte dal cuoree lo fa vibrare, quella ci manca.

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