Il business che ci serve

Colonialisti si nasce, non si diventa. E noi non lo «nacquimo», come direbbe Totò. Ma un conto è colonizzare, altro è investire. Fare affari, e creare lavoro. Creare lavoro e frenare l’emigrazione. Bingo. Allora, ben venga questo ritorno dell’Italia in Africa più consono al nostro Dna, sia con i danari e con le imprese grandi e piccole, sia con le divise dei nostri soldati. Niente ‘faccetta nera’, ma difesa della pace, dei siti e degli Stati dove di nero c’è soprattutto l’oro, cioè il petrolio che l’Eni estrae dal sottosuolo. Dove anche la miseria è nera, e con essa la voglia, il bisogno di scappare. Se non ci fossero Cina ed Emirati Arabi saremmo i primi investitori nel grande continente che tra trent’anni avrà raddoppiato la popolazione e i bisogni. Mica poco. Ancora più dei ricchi compaesani europei, più di quei furbacchioni dei francesi, ad esempio, sempre pronti a fare gli interessi loro, anche bombardando (con la complicità suicida di Roma) gli amici nostri, tipo Gheddafi. Pronti a sfruttare eventualmente anche le nostre missioni militari, tipo Niger, dove ricavano l’uranio per le centrali nucleari, che noi aborriamo, e da cui però prendiamo tanta energia elettrica. Detto questo, non occupiamoci degli altri, ma di noi. Tanto, con i compagni di Pechino non si può competere. Si sono già comprati mezza Africa, e hanno i soldi necessari e sufficienti per comprarsene dell’altra. Noi, per fortuna, non compriamo niente, non controlliamo Paesi e Governi. Investiamo. Attività lecita, e pure indirettamente benefica per loro e per noi. Perché se hai lavoro e mangi a casa tua, non hai bisogno di andare a casa d’altri. Se leggerà i dati della nostra inchiesta, sarà contento anche il Papa che pure ieri ci ha nuovamente stimolato e bacchettato per la giornata mondiale dei migranti, e che ci potrà riscattare dal purgatorio dei timorosi, dei reticenti. Insomma, non sappiamo se i nostri affari sono «etici». Di sicuro paiono utili. Per la tasca, e per il Paradiso.