La fonte di tutti i mali

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UN TEMPO, non lontano, alla porta dell’Unione Europea bussavano tutti. E tutti o quasi venivano accolti. L’Europa unita era la manna salvifica. Gli Stati aderenti erano dodici, a Maastricht, solo ventitré anni fa. Ora sono ventotto. Oggi, al settimo anno della grande crisi, il ciclo si è capovolto. Ci sono quelli che dall’Europa vorrebbero scappare e ci sono i tiepidi dell’«Europa si, ma...». Magari ci sono anche gli europeisti convinti, ma li incontriamo con difficoltà. Invece sono numerosi gli euro pedagogici: quelli che dicono che stare in Europa conviene, non se ne può fare a meno, altrimenti sarebbe peggio. Magari hanno ragione, ma fanno sempre più fatica a convincere. Un tempo la retorica europeista straripava anche in un’elezione di quartiere; ora l’Europa è terreno permanente di scontro. Così a ogni tornata elettorale si sta col fiato sospeso. Ci siamo con la Spagna. Sono elezioni significative anche se amministrative perché toccano più di 35 milioni di spagnoli e perché sono la prova d’orchestra delle politiche del prossimo novembre. Ma, soprattutto, perché rompono il bipolarismo dominante di popolari e socialisti con l’affermazione di Podemos, il partito di Pablo Iglesias, e di Ciudadanos che raccolgono l’eredità degli «indignados».

CHE TALI sono con la filiera che lega il governo di Madrid alle autorità di Bruxelles e di Francoforte. Perché per tutti qui sta la fonte di tutti i mali. Con la Polonia, ove le elezioni sono presidenziali, siamo fuori dell’area euro. E qui il dilemma è proprio questo, si entra o non si entra? Al capo di Stato uscente Bronislaw Komorowski si contrappone con successo il leader ultra conservatore e ultranazionalista Andrzej Duda che il 10 maggio scorso, al primo turno, proprio sull’anti europeismo ha ottenuto più del 34% dei suffragi. Il ricordo di quando la Polonia corse ad abbracciare Nato e Unione europea si fa assai sbiadito.

INTANTO continua la sceneggiata della Grecia. Ormai siamo abituati ai proclami barricadieri di Tsipras e di Varoufakis. Con loro non è mai facile comprendere quanto sia sostanza e quanto messinscena. In realtà, l’interlocutore più duro con Atene è il Fondo monetario internazionale. Mentre l’arma più potente di Atene non sta in patria, ma a Francoforte. La minaccia di Tsipras è che se la Grecia esce dall’euro tutta la macchina governata dalla Bce s’indebolisce. Non ci resta che confidare nel saggio principio che non ci si tagliano gli attributi per far dispetto alla moglie.

DELLA Gran Bretagna è noto tutto: lo spirito insulare che da sempre ne ha fatto un’euroscettica e il referendum del 2017 promesso da Cameron. Ora arriva anche la fuga di notizie dalla Banca d’Inghilterra sull’unità «supersegreta» messa in piedi per studiare gli effetti dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Qualche dubbio la vicenda lo suscita: una mail «casualmente» diretta proprio al «Guardian», quotidiano d’orientamento filo laburista. Ma la questione resta. Il nodo per tutti è uno. È rigettata la filiera che si dirama da Bruxelles e da Francoforte facendo leva sui governi nazionali. Chi governa paga il fio a un’opposizione che risale la filiera a ritroso e colpisce tutti, fino in cima. In attesa che arrivi la ripresa.

sandrorogari@alice.it