"Sepolto vivo in un carcere Usa". L’urlo di Chico: Renzi mi tiri fuori

Forti è all’ergastolo per omicidio. L’avvocato Tacopina: è innocente. "In Italia tanti manifestano affetto, vogliono aiutarmi. Loro sono il vento che gonfia la mia vela"

Chico recluso riceve la visita del legale Joe Tacopina

Chico recluso riceve la visita del legale Joe Tacopina

Miami, 7 maggio 2015 - DAL 15 GIUGNO 2000, giorno in cui è divenuta esecutiva la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Dale Pike, non ha perso soltanto la libertà, ma anche il nome. Da allora Enrico Forti, detto Chico, originario di Trento, classe 1959, campione di windsurf, del TeleMike, poi reporter d’assalto e imprenditore di successo in Florida, è il detenuto 199/115. Si è sempre proclamato innocente e neppure a 15 anni dal buco nero che ne ha inghiottitio l’esistenza ha perso la speranza. La sua vicenda giudiziaria, per la giustizia americana, è chiusa. Morta e sepolta.

Che cosa si aspetta dall’Italia, non siamo fuori tempo massimo?

«Non chiedo né pietà né misericordia: sono innocente, vorrei riavere la mia dignità. Ho bisogno dell’Italia e dei suoi politici al vertice per otterere giustizia. Il governo italiano può diventare la testa d’ariete che sfonda il portone della roccaforte americana. La verità, prima o poi, verrà a galla» ci risponde al telefono, con la voce che va e viene, l’operatrice del carcere di Everglades, roccaforte di cemento armato nelle paludi alle spalle di Palm Beach, che interrompe la nostra conversazione ogni dieci minuti. Dal giorno della sua condanna Forti si è visto respingere per ben sei volte la richiesta di appello, l’ultima nel luglio 2009. Eppure si è creato un movimento di solidarietà nei suoi confronti. Sempre più persone, in Italia, manifestano affetto e vorrebbero aiutare Chico Forti.

In che modo potrebbero giovare alla sua causa?

«Tutte queste persone sono il vento che gonfia la mia vela. Le innumerevoli manifestazioni di solidarietà che ricevo da 15 anni a questa parte da tanti connazionali mi fanno sentire orgoglioso di essere italiano».

Un bel giorno nella sua vita si è materializzato Joe Tacopina...

«Credo molto in lui. Pur essendo un avvocato affermato e occupatissimo, ha trovato il tempo per venirmi a trovare e convincere se stesso e i suoi colleghi della mia totale innocenza. Aveva programmato una visita di 30 minuti che si è prolungata per cinque giorni e un totale di 20 ore. Se ne è andato con una stretta di mano che è divenuta un abbraccio, un paio di lacrime a stento trattenute e un augurio sincero. Chico, mi ha detto, prometto che ti tirerò fuori di qui, costi quel che costi. Non ti abbandonerò mai».

Perché le indagini per l’omicidio di Dale Pike si sono subito orientate su di lei?

«Perché l’occasione fa l’uomo ladro. E l’occasione, nel mio caso, era la possibilità, anche se remota, che potessi essere coinvolto. Non conoscevo Dale, non avevo motivi per eliminarlo».

Chi sarebbe, allora, l’uomo ladro?

«Un gruppo ristretto e ben affiatato di poliziotti con interessi da salvaguardare. Io, che avevo avuto l’ardire di girare Il sorriso della Medusa raccontando al mondo che la storia Versace-Cunanan aveva un finale ben diverso da quello che ci era stato propinato dalla polizia di Miami, ero lo scomodo ficcanaso che andava punito».

Colpito per ritorsione dalla polizia che aveva criticato col suo documentario: chi accusa?

«Gary Schiaffo, capo investigatore nel caso del presunto suicidio di Andrew Cunanan, il killer di Versace, il tenente Campbell, capo investigatore nell’indagine che mi riguardava, la sergente Carter e il detective Gonzales sono poliziotti di Miami che non annovero nella categoria degli onesti, perché hanno mentito di fronte al giudice e per questo sono stati solo redarguiti, non condannati per spergiuro come prevede il codice. Recentemente la Fbi ha ammesso che il reparto scientifico, ha alterato il 95% delle prove favorendo l’accusa su 2500 casi, fino all’anno 2000; 14 persone hanno pagato con la vita, giustiziati o morti in carcere. E’ stata l’ammissione che ha posto fine al più grande scandalo dei tribunali americani. Nel mio caso la Fbi collaborò con l’accusa per la perizia calligrafica e la sabbia rinvenuta nel gancio traino della mia Range Rover».

Perché ha mentito alla polizia quando è stato interrogato?

«Ho avuto paura che potesse andarci di mezzo la mia famiglia. Per cercare di incastrarmi mi era stato detto durante l’interrogatorio, di cui è misteriosamente sparita la registrazione, che anche il padre di Dale Pike, Tony, era stato ucciso. Io tornavo da New York, dove avrei dovuto incontrarlo. In quel preciso istante ho temuto per mia moglie e le mie bambine, ho avuto paura che la mia famiglia potesse essere la prossima nella lista delle esecuzioni dopo Dale e Tony Pike».