Accorsi torna sulla via della droga. "Per fare Loris ho perso dodici chili"

In “Veloce come il vento” è un ex pilota tra eroina e voglia di riscatto

Stefano Accorsi ''Veloce come il vento" (Ansa)

Stefano Accorsi ''Veloce come il vento" (Ansa)

ROMA, 2 APRILE 2016 - NON S’ERA mai visto uno Stefano Accorsi così. Così abbrutito e imbruttito, smagrito e sciatto. Ma anche così vistosamente bravo, intenso e convincente. E’ l’ex pilota Loris De Martino, distrutto dalla droga e da un’esistenza da sbandato, che riprova a dare un senso alla vita allenando la sorella (la giovane attrice Matilda De Angelis), appena diciassettenne, per il campionato GT. La posta in gioco è alta: la casa di famiglia, unica cosa rimasta a loro e al fratellino più piccolo, ma anche una forte, anche se non dichiarata, voglia di riscatto. E il bel film di Matteo Rovere, ‘Veloce come il vento’, dal 7 aprile nelle sale, fonde con sapienza, adrenaliniche scene di corsa e sentimenti familiari segnati da distanza, risentimento, complicità, amore. Accorsi, il film è ispirato a una storia vera.

Quanto c’è di Carlo Capone, pilota di rally negli anni Ottanta, nel suo Loris?

Capone è stato un punto di riferimento fondamentale perché, campione europeo di rally di gruppo B, a un certo punto ha incontrato l’eroina. Ma non volevamo rappresentare esattamente la sua vita e difatti il regista lo ha incontrato (dopo essersi disintossicato dall’eroina, ora Capone sta affrontando un percorso di riabilitazione in una clinica psichiatrica), ma io no. E è vero che ha allenato una ragazza, ma non era sua sorella. Gli sceneggiatori hanno preso questa materia e l’hanno rielaborata, utilizzando anche tante altre storie raccolte a bordo pista, da meccanici, da piloti di Gran Turismo, da piloti di rally. Il film è un’opera di sintesi molto libera, ma ci piace pensarlo anche come un omaggio alla figura di Capone».

Ruolo bello e difficile. Come si è preparato per diventare Loris?

«Quando ho letto il copione, mi sono subito detto, è uno di quei film che capitano di rado, sia per il personaggio sia per la qualità della scrittura. Raro nel panorama cinematografico, e non solo italiano, anche per il mondo che racconta, delle competizione automobilistiche, con personaggi così atipici in assoluto. E fin dalla prima volta che ho incontrato Matteo Rovere, è stato chiaro che non si poteva fare finta, pensare che bastasse un po’ di trucco per interpretare questo eroinomane. E’ stato necessario un lungo percorso di avvicinamento, sia dal punto di vista fisico che psicologico e emotivo. Ho dovuto perdere molto peso».

Ha perso 10 chili?

«In realtà di più. Quando sono arrivato a meno 12, ho smesso di guardare la bilancia perché mi impressionava. A un certo punto avrei dovuto smettere di dimagrire, e invece continuavo a perdere peso. La dieta brutale, in un programma fissato con un dietologo, ho dovuto farla prima delle riprese, altrimenti non avrei avuto le energie per girare. Per tre settimane non ho toccato letteralmente cibo, solo liquidi. La prima cosa che ho mangiato dopo 25 giorni senza mai masticare nulla, è stata una pera. L’ho fotografata quella pera perché, in tutti quei giorni senza cibo, sognavo non tanto di mangiare, quanto proprio di masticare qualcosa di solido. Poi, per la costruzione psicologica del personaggio, ho incontrato varie persone con problemi di tossicodipendenza, e anche questo è stato molto forte. E poi, chiaramente, ci sono state le piste, le auto, i corsi di guida veloce».

La scena più difficile?

«Forse quella dell’inseguimento nel centro storico di Imola, perché bisognava recitare e stare attenti a non farsi male».

E avete girato davvero a Matera, sfrecciando per quelle viuzze?

«E’ stato pazzesco, perché tutto il centro di Matera è fatto con pietre molto scivolose. Era come guidare macchine da 500 cavalli, sul sapone. Ma è successa una cosa bellissima, perché proprio quel giorno Matera ha saputo che sarebbe stata capitale europea della cultura nel 2019. Noi giravamo di fronte alla città, e a un certo punto si è levato da Matera un boato di gioia che ha dato a tutti noi una grandissima emozione».

Lei, bolognese, per il suo Loris sfoggia una cadenza emiliana. L’ha aiutata?

«Era da un po’ che non recitavo nella mia lingua. Mi sono reso conto di quanto mi fosse mancata, proprio rifacendola. E’ una cosa che ti fa attingere a radici profonde».

E’ vero che la sua splendida carriera ha preso il volo grazie a un annuncio letto su ‘Il Resto del Carlino’?

«L’ha letto mia madre. Era in vacanza in Campania ma, come sempre, essendo noi di Bologna, continuava a leggere anche lì ‘Il Resto del Carlino’, e lesse che Pupi Avati cercava i protagonisti del suo prossimo film. Mia madre, che sapeva che volevo fare l’attore – perché è praticamente da quando sono nato che voglio fare l’attore – mi disse che bisognava presentarsi il tal giorno al Palazzo della Provincia, a Bologna. Io, che finivo il liceo quell’anno, ci andai e fui preso per ‘Fratelli e sorelle’»